Slalom tra montagne di rifiuti quando non tra i roghi frutto dell’esasperazione e della speranza che si accelerino gli interventi di recupero. Nelle ultime ventiquattro ore sono 64 i roghi che hanno richiesto l’intervento dei vigili del fuoco. Questa la quotidiana viabilità cittadina per i palermitani e i cittadini dei comuni limitrofi alla metropoli da circa dieci giorni, quando netturbini e lavoratori dell’ Amia (società partecipata che si occupa della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti in città) che non percepiscono lo stipendio da mesi hanno incrociato le braccia per le sfocate certezze sul loro posto di lavoro che l’azienda commissariata dalla procura da ben due anni -ma che si avvia ugualmente verso il fallimento- non ha certo messo tra le sue priorità.
Questo lo specchio di un’Italia dove, se il dibattito politico e mediatico si riduce e si esaurisce con vera maestria dell’arte dello spettacolo e della distrazione mediale, nell’elezione del presidente della repubblica, la vita vera è dilaniata da continue emergenze sociali, licenziamenti, esodati, cassintegrati, galleggiamento esistenziale nella crisi. “Emergenza”: questo il brand di una governamentalità vacillante che ha fatto dello stato d’emergenza appunto, il dispositivo di calmierazione e normalizzazione dell’insofferenza, della rabbia, del conflitto. A non lasciarci dubbi sulla questione è la Cgil che piuttosto che inasprire i toni di fronte alla liquidazione storica di qualsiasi garanzia lavorativa -ottenuta con il sangue versato dai lavoratori nel dopoguerra- sceglie di rispondere affermativamente anche se non ufficialmente al feticcio dell’unità nazionale in nome dell’emergenza, sbandierato dagli avversari di sempre, da chi sta dall’altra parte della barricata a difendere i propri interessi sulle spalle di lavoratori, precari e sfruttati, confindustria.
Forse però, la gestione di una crisi che s’inasprisce sempre più e in cui l’orizzonte della ripresa non esiste a queste condizioni di continua accumulazione di rendita finanziaria, comincia a diventare complicata e lo strumento dello stato di emergenza permanente, a cui seguono linearmente “sacrifici” e “unità d’interessi” che vorrebbero accomunare sfruttati e sfruttatori -direttamente carpito dal “laboratorio sud”- sembra non funzionare come sperato.
Anche quel modello Sicilia che Grillo aveva definito “fantastico”, sembra crollare su se stesso di fronte alle contraddizioni che esplodono nella società della crisi e dal crollo della fiducia nella rappresentanza. Mentre il Pd, piegato dal peso parlamentare e mediatico del M5s sull’ elezione del presidente della repubblica, si scioglie come neve al sole dalla politica italiana, Crocetta approva con la sua giunta un taglio al bilancio di circa 1,5 miliardi di euro. Ma palazzo D’ Orleans è quotidianamente assediato da presidi, cortei, proteste che più che “fantastica” rendono Palermo specchio di un’Italia che verrà, dove lo stato d’emergenza e una crescente sfiducia nelle istituzioni scandisce la quotidianità.
Innumerevoli le proteste, da quelle dei netturbini, a quelle dei forestali, dei lavoratori della sanità, ai precari della formazione fino ai trentamila cassintegrati, di cui una buona fetta non potrà usufruire degli ammortizzatori sociali che finora ne hanno permesso la sopravvivenza. Se poi andiamo sul terreno delle società partecipate, a cui comuni, province e regione esternalizzano servizi e utenze, notiamo come non solo in Sicilia ma in tutto il paese, il default degli enti pubblici che non riescono più ad adempiere agli accordi con le aziende a cui esternalizzano gli appalti, sembra una costante che ci proietta in un immediato futuro. Dai licenziamenti nelle strutture sanitarie pubbliche a Roma, Pisa e Milano (vedi i massicci licenziamenti di questi giorni all’ospedale San Raffaele e gli scontri tra lavoratori e polizia che ne sono susseguiti), ai fallimenti delle innumerevoli partecipate nei comuni di Napoli (di cui si può parlare di vero e proprio fallimento) e Palermo, tra Amia, Amat (società dei trasporti), Gesip, è sul pubblico e soprattutto sui lavoratori direttamente o indirettamente (attraverso partecipate e subappalti degli enti locali) legati a questo settore, che si concentrano i tagli più consistenti e migliaia di licenziamenti. Del resto non molto tempo fa la Fornero stimava circa 20.000 i lavoratori delle amministrazioni locali e nazionali in “esubero” (che carineria dirlo così!) per il 2013. Ventimila licenziamenti solo nell’amministrazione degli enti pubblici; e quelli delle partecipate, dei trasporti, della formazione, della sanità? E che dire delle innumerevoli quantità(?) di precari il cui sfruttamento è trasversale a tutti questi settori lavorativi? Altro che il 12% di disoccupazione di Repubblica; tra chi non riceverà più la cassaintegrazione (nonostante gli sforzi di facciata della Cgil) e chi ha perso o perderà il lavoro si parla di milioni di disoccupati, e su cui il patto di stabilità che taglia ulteriormente i finanziamenti agli enti locali, pesa come un macigno. Attenzione, parliamo soltanto di impiegati del settore pubblico!
Nulla che non ci si aspettasse. Forse, semplicemente, il come la speculazione finanziaria sui debiti pubblici degli stati nazione si traduca immediatamente in smantellamento del sistema sociale e di finanziamento pubblico, si sta concretizzando acerbamente in Italia in questo settimo anno di crisi.
Ma come accennato, neanche in quel laboratorio del capitalismo che si realizza grazie a continui stati d’eccezione, che è la Sicilia, il dispositivo di governance dell’emergenza permanente sembra riuscir a normalizzare l’esistente e le sue continue contraddizioni. In tal senso a darci una bella fotografia del presente è Palermo.
Nel momento in cui questo articolo viene scritto, nel capoluogo siciliano si sta svolgendo un presidio di lavoratori sotto la sede della provincia e un corteo di cassintegrati ed esodati si dirige verso palazzo d’Orleans. In mattinata il corteo di studenti, precari e disoccupati per il reddito garantito mentre centinaia di lavoratori del settore edilizio presidiano il palazzo delll’ Ars. Se ci si allontana un po’ dal centro, ma proprio un po’ eh, di tanto in tanto potreste vedere qualche cassonetto bruciare o fare blocco sulla strada a mo’ di protesta. Sono le 16:30 di Venerdì 19 Aprile.
Il rifiuto e la non accettazione della socializzazione verso il basso della crisi finanziaria con annessa imposizione dei sacrifici, sono nella Palermo di oggi, sentimenti piuttosto condivisi aldilà di come si concretizzino; perché da circa un mese o forse più, cortei, presidi, proteste, vertenze, scontri, occupazioni, con cadenza giornaliera che individuano la loro controparte negli enti istituzionali e nei luoghi fisici di Regione e Comune, interrompono e spezzano la normalità della produzione e riproduzione economica e sociale di questo sistema; interrompono flussi di merci e persone, spezzano tempi e spazi della metropoli, cioè del capitalismo. Nessuna apologia rivoluzionaria, nonostante spesso le proteste assumano dei tratti insurrezionali e di alta conflittualità, troppa al momento è però la frammentazione e l’eterogeneità di una composizione, spesso in pasto alla mediazione dei sindacati, e che interessa tutto il mercato del lavoro, pubblico e privato (se come già osservato, è possibile far ancora questa differenza).
Semplicemente lo stato d’emergenza si trasforma in ingovernabilità accelerando la profonda crisi che attraversa la rappresentanza.
Lotte come quelle che si sono date a Milano, dove i lavoratori hanno scavalcato la mediazione sindacale puntando dritti all’obiettivo con l’occupazione dell’accettazione dell’ospedale, ci dicono che è possibile agire spazi d’autonomia dentro i luoghi del pubblico e delle istituzioni del pubblico, e città come Palermo e Napoli (vedi la giornata del 10 Aprile) ci raccontano invece come tali spazi d’autonomia, anche se tutti da costruire, abbiano un terreno fertile sul quale concretizzarsi, l’ingovernabilità e lo stato d’emergenza permanente di rappresentanza e istituzioni.
Sarà presto così anche in tutto il paese? Speriamo di si.
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