Piano di ripresa e resilienza: una nuova fregatura
di Luigi Pandolfi per Volere la luna
L’errore più grande che si potrebbe fare a proposito del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) varato dal Governo – la Camera lo ha approvato con soli 19 voti contrari! – è quello di leggerlo focalizzando l’attenzione esclusivamente sui numeri. I numeri relativi alle risorse disponibili e alla loro distribuzione per ogni singola missione. Beninteso, il fatto che si abbiano o non si abbiano più soldi da spendere è importante, ma trattandosi di un programma integrato, inteso come «parte di una più ampia e ambiziosa strategia per l’ammodernamento del Paese», addirittura finalizzato a «aggiornare le strategie nazionali in tema di sviluppo», più che il miliardo in più o il miliardo in meno spalmato sui vari capitoli, conta l’idea di Paese e di società che in esso viene disegnata.
Per questo, a chi volesse comprenderne la reale portata consiglierei di partire, nella lettura, dalla fine anziché dall’inizio. In particolare, suggerirei di dedicare un’attenzione preliminare, e particolare, all’ultimo capitolo del documento, nel quale vengono esaminati gli «impatti delle riforme», che del Piano costituiscono, per così dire, l’anima e l’elemento prospettico (saranno realizzate con provvedimenti specifici). «Le azioni di riforma sono sinergiche e interagiscono con gli investimenti pubblici e le altre misure di spesa già esaminate», si legge nel capitolo richiamato. In sostanza, si vuole significare che PNRR non è un semplice tableau di interventi da finanziare, bensì un programma di riorganizzazione complessiva del sistema economico e sociale, in vista del dopo pandemia. «I Piani Nazionali di Ripresa e Resilienza sono innanzitutto piani di riforma. Le linee di investimento devono essere accompagnate da una strategia di riforme orientata a migliorare le condizioni regolatorie e ordinamentali di contesto e a incrementare stabilmente l’equità, l’efficienza e la competitività del Paese».
Innanzitutto “piani di riforma”, dunque. La leva attraverso cui si dovranno realizzare “riforme strutturali” (ora chiamate “riforme di contesto”) dirette a trasformare la situazione presente, in nome di una maggiore “competitività” del sistema. Uno schema perfettamente neoliberista. Nel quale lo Stato non scompare, ma si pone a diretto servizio dell’economia di mercato, dettando regole di contesto, imponendo ope legis ciò che serve per rendere i mercati “più concorrenziali”, mettendo le imprese nella condizione di competere «in termini di qualità dei prodotti, ma anche in termini di costi». Uno schema astratto, supportato da formulazioni matematiche, nel quale di concreto ci sono soltanto il ritiro del settore pubblico dall’economia e la riduzione dei costi di produzione. Privatizzazioni ‒ quello che resta da privatizzare ‒ e abbattimento del costo del lavoro, che, come si scrive esplicitamente nel Piano, costituisce uno dei «motivi rilevanti» del fenomeno della delocalizzazione produttiva (deflazione salariale).
Gli ambiti per i quali vengono simulati gli impatti delle riforme sono tre: pubblica amministrazione, giustizia, competitività. Ma è in particolare sul terzo ambito che bisogna concentrarsi per comprendere la filosofia di fondo che ispira l’intero documento («Un fattore essenziale per la crescita economica e l’equità è la promozione e la tutela della concorrenza», scrive Mario Draghi nell’introduzione). La premessa è che le riforme devono far crescere il grado di concorrenza dei mercati. Per raggiungere questo obiettivo, però, è necessario innanzitutto fotografare la situazione di partenza. Quanto è competitiva l’Italia in rapporto ad altri Paesi europei ed extraeuropei? La risposta a questa domanda può essere data avvalendosi di un indicatore che misuri il rapporto tra livello di regolazione dei mercati e performance dell’economia: l’Indice di regolamentazione del mercato dei prodotti (Product Market Regulation Indicators, PMR), sviluppato una ventina d’anni fa dall’OCSE. L’equazione su cui si basa il modello di comparazione è molto semplice: a livelli elevati di regolamentazione dei mercati e di presenza dello Stato in economia corrispondono bassi livelli di competitività del sistema, quindi una sua bassa propensione alla crescita, alla creazione di ricchezza, all’incremento dell’occupazione. A ben vedere, niente di nuovo. Tutto in linea con i presupposti della teoria economica dominante, secondo la quale è il mercato e solo il mercato a determinare la migliore allocazione possibile delle risorse, in vista del conseguimento di obiettivi economici di cui potranno beneficiare tutti i membri della società. Tesi farlocca, ovviamente. La storia ha dimostrato esattamente il contrario. Che anche quando il mercato raggiunge un certo “equilibrio”, quest’ultimo non è mai ottimale. E che, al netto delle crisi, in una società organizzata secondo questo schema l’optimum è possibile solo per chi detiene i mezzi di produzione e sfrutta il lavoro altrui, benché anche nel Piano si ponga l’accento sulla riduzione dei margini di profitto per effetto di una maggiore concorrenza (meno profitti, prezzi più bassi, maggiori investimenti, sarebbe la sequenza). Insomma, da molti decenni a questa parte, l’equilibrio ottimale dei mercati concorrenziali è rimasto solo nei grafici dei manuali di economia politica. E nei documenti di politica economica dei governi, che continuano, a dispetto della storia e dell’evidenza empirica, a farne Vangelo.
Nel 2018, l’indice PMR dell’OCSE segnalava per l’Italia, come per gli anni precedenti, un problema di bassa competitività. Non tanto per i livelli di regolazione del mercato che, dati alla mano, erano più bassi di altri paesi sviluppati (il risultato delle “riforme” che hanno deregolamentato il mercato del lavoro e liberalizzato ampi settori dell’economia), ma per l’eccessiva presenza dello Stato in economia (come se gli anni Novanta non ci fossero stati). È da qui che muove il Piano di ripresa e resilienza. Bisogna privatizzare e liberalizzare ancora di più per mettere le ali all’economia (nel Piano si dà ampio risalto alla necessità di affidare al mercato i servizi pubblici essenziali, limitando la possibilità per le amministrazioni di ricorrere a gestioni in house). Non mancano, ovviamente, numeri e tabelle per dimostrare questo assunto. La scientificità della tesi è data in maniera assiomatica: una riduzione del 15% dell’Indice di regolamentazione dei mercati «genera dopo 5 anni un aumento del PIL rispetto allo scenario di base pari a 0,2 punti percentuali, mentre nel lungo periodo si arriverà a 0,5 punti percentuali». Senza considerare “l’impatto positivo” su investimenti e consumi. Keynes fuori dalla porta, siamo di nuovo alla Legge di Say. I redditi generati dal sistema sono sufficienti a garantire un certo livello di investimenti e di consumi che consentono al sistema di riprodursi.
Un mondo irreale, fantastico, che fa a pugni con la realtà drammatica in cui siamo immersi. La pandemia, tra le altre cose, ha reso evidente quanto siano state nocive per la società, per la qualità della vita, le scelte di politica economica compiute negli ultimi decenni all’insegna delle formulazioni che ancora si ritrovano in questo Piano. Sanità, lavoro, servizi pubblici: le fragilità del sistema sono imputabili a una presunta “ristrettezza” del mercato o al fatto che il mercato è stato fatto entrare dappertutto e che tutto è stato mercificato, finanche il diritto alla salute? Per quanto riguarda la bassa crescita, è stato un problema di concorrenza o una questione di domanda insufficiente, figlia di alti livelli di disoccupazione, di lavoro sottopagato, di aumento della povertà, di politiche che hanno compresso la spesa pubblica, compresa quella per investimenti? Purtroppo, con l’eccezione di sparute minoranze, invisibili agli occhi dei media, nessuno in questo momento pone seriamente questi problemi (nemmeno a sinistra, per la verità). Si fanno i conti della serva sul miliardo qui e il miliardo là, quanto a me e quanto a te, che bella la rivoluzione verde, quanto è figo l’idrogeno, senza accorgersi (c’è ovviamente chi se n’è accorto ed è d’accordo) che ci stanno fregando un’altra volta. No, in questo modo non usciremo da questa crisi meglio di come ci siamo entrati. Ne usciremo nel peggior modo possibile.
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