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“Que se vayan todos!”, l’attuale verso di Rimbaud

C’è un sentimento di preoccupazione e superba censura, un sentimento di sdegno, ancora quasi nascosto o a volte esplicito, che si aggira tra le pagine dei quotidiani, tra corsivi, lettere ed editoriali quando si parla dell’università e degli istituti superiori in lotta contro la riforma Gelmini e il governo Berlusconi. Dal Corsera al Foglio, da Repubblica al Giornale, tra pavidi tifosi di tribuna no-Gelmini, e accaniti coristi della curva Berlusconi, si fa largo l’aristocratica condanna di un moto, di un sommovimento sociale, che si è rifiutato a priori di stare alle grandi regole del gioco.

Lassù, sulla torre di Pisa, sulla Mole Antonelliana, sul Colosseo, tra tetti di università e ponti di autostrade non si è in lotta per entrare nello spazio senza tempo della libera concorrenza del mercato, non ci si vuole conquistare una parte tra uguali per giocare al naturale movimento dell’economia neoliberale. Lassù, quell’alta posizione, se l’è conquistata, con un grande balzo la cooperazione espressa dal livello più alto della composizione tecnica e politica della classe in-formazione, e il bel vedere che si apre a quelle altezze ha il sapore di una visione archeologica, dove si ammira il comando che diviene statua, prossimo rudere, contro-parte di cui si può misurare la possibile durata e la conclamata storicizzazione.

I moti e sommovimenti della formazione in lotta descrivono una traiettoria verticale che da dentro la crisi, rifiuta e si rivolta verso l’alto per uscire e battere l’orizzonte senza e anti-storia dell’ideologia neoliberista. E’ la conquista del tempo che muove questa formidabile energia politica antagonista orientata a destituire lo spazio a-temporale dell’eterno sfruttamento neoliberista, è qui che si apre il grande e vero gioco: la riappropriazione del tempo, la ripresa del futuro, dove “We are wining!” è un gerundio che costituisce la premessa e promessa di continuità, il desiderio dell’accelerazione continua in avanti.

In Francia gli studenti e le studentesse delle scuole superiori hanno aperto gli scioperi e le mobilitazioni prendendo non solo parola sulla, ma prendendo posizione contro la riforma delle pensioni, costruendo una barricata costituente, aperta e inclusiva delle tante singolarità rivoltanti del territorio. Il banlieusard dopo decenni di aspra solitudine ha riscoperto il calore del “fare collettivo” nel ritorno delle barricate accese a Nanterre, un ritorno felice che segna la possibilità di sincronizzare un futuro anteriore in un programma di lotta attuale che dal proletariato giovanile attacca la riforma del sistema pensionistico costruendo uno spazio sociale accogliente le istanze di lotta contro la crisi.

Come in Francia anche in Gran Bretagna la formazione in lotta accelera ed anticipa, è in conflitto per rompere lo schema a priori dello spazio a-storico che si vorrebbe richiudere, o meglio sigillare tramite l’agganciamento della formazione al sistema creditizio e finanziario. I figli dei livelli bassi della classe media e del proletariato inglese hanno conquistato il tetto della MillBank Tower e si danno all’assedio dei palazzi del potere per ridare agli sfrutttati ciò che è degli sfruttati: il tempo delle lotte, fuori e contro l’atemporalità della libera concorrenza del mercato. 

I blocchi stradali nelle città e nelle autostrade, l’arrivo della formazione in lotta ai terminali degli aeroporti e ai binari delle stazioni ferroviarie della grande giornata del 30 novembre in Italia hanno dato la continuità al discorso aperto dalle mobilitazioni europee, sferrando un colpo incredibile all’ideologie del “post-” nell’affermazione della piena modernità del gesto compiuto che fa prorompere la forma attuale dello sciopero con cui la cooperazione nei suoi livelli più alti si rivolta al comando.

Da questo punto di vista il 30 novembre è stata una trasfigurazione antagonista del verso rimbaudiano con cui ci si approssima alla conclusione di “Una stagione all’inferno” quando il poeta raccomanda che “bisogna essere assolutamente moderni”. La formazione in lotta, avanguardia sociale contro la crisi in Italia e in Europa, il 30 novembre ha fatto prorompere l’assoluta modernità della lotta operaia nella forma moderna dello sciopero metropolitano. Ma d’altronde basta saper accostare l’orecchio alle strade attraversate dai cortei e dalle manifestazioni per constatare quanto mai come oggi ciò che la piazza dice è ciò che la piazza fa con risoluta spontaneità:”se ci bloccano il futuro noi blocchiamo la città!”.

Questa presa di posizione della formazione in lotta rompe d’anticipo, da fuori, la gabbia del discorso neoliberale, auto-producendo una narrazione di sè completamente altra quanto radicale, un’alterità dell’immaginazione che rifiuta e batte la figura della vittima con cui il potere ha narrato le solitudini, le disperazioni, i dolori, dei poveri d’oggi, degli sfruttati, dei precari. Ai buchi neri delle passioni tristi, quei maledetti vortici del no-future in cui sono precipitati operai e ricercatori, precari e studenti come vittime capaci al massimo dell’estremismo del suicidio, oggi si oppone in alterità un primo sommovimento felice che può polarizzare nel fare collettivo le singolarità libere dalla condizione della solitudine.

Un rifiuto della figura della vittima tramite l’affermazione estremista della riappropriazione del futuro che è già un’allusione al divenire classe, una gioiosa voluttà espressa dagli studenti e dalle studentesse che lottano in Italia come in molti altri paesi europei.

Questa accelerazione liberogena provocata dalle occupazioni delle scuole e degli atenei, dai blocchi metropolitani, questa energia politica non a caso ha scelto di riconoscersi e salutare le sommosse argentine del 2001, riscrivendo nelle strade e nelle piazze italiane il “Que se vayan todos” di quelle giornate formidabili di lotte contro la crisi provocata dalle elites della Casa Rosata.

Oggi in Italia, come tempo fa in Argentina, c’è forte ed esplicito il rifiuto della politica della rappresentanza. Qui non si tratta di anti-politica o anti-berlusconismo tanto caro a certi comici, scrittori, politici e giornalisti, anzi il “Que se vayan todos” supera e critica questi fenomeni considerati come prodotti passivi del sistema e della sua riproduzione in crisi. Tra battiti di mani e corse per strade i cortei affermano con lo slogan “Non ci rappresenta nessuno” la bellezza della politica che viene, che arriva altra e fuori dal sistema della rappresentanza. La bellezza della politica è lì e non, come qualcuno si ostina a dire tra primarie e comizi, nell’urna elettorale, poichè nel fondo di quella scatola si scorge il volto osceno del Leviatano ormai deturpato dalla sua stessa crisi.

“Mandarli tutti a casa! e che non ne resti più nessuno!” è quindi la bella affermazione cosciente, che emerge in prima istanza dalle lotte del sapere e per la difesa dei beni comuni, dell’impossibilità della mediazione e della indisponibilità alla riforma di un capitalismo necrogeno e distruttivo che non si ferma nella sua corsa violenta e brutale davanti a nessun “alto là” dai toni socialdemocratici o riformatori.

A ragione quindi si insiste sulla possibilità di fare degli atenei occupati, dei presidi territoriali in difesa dei beni comuni dei primi spazi di sperimentazione costituente dell’alterità, proprio come i piqueteros che tornando dalla piazza della Casa Rosata, iniziarono ad autogestire le proprie fabbriche, le proprie università e a sperimentare una gestione autonoma e libera dei propri territori, quartieri e città fuori e contro la crisi.

Ma per seguire questa traiettoria diagonale alla crisi, che soggettivamente prefigura e propizia un passaggio dell’energia politica destituente in potenza costituente, per accumulare la forze e la gioia del fare autonomia, oltre a godere della grande scoperta “che nessuno basta a se stesso”, c’è da scoprire le possibili sincronie dei tempi della politica alla temporalità delle lotte, rimisurando e verificando l’adeguatezza della nozione ideologica dei cicli dei movimenti sociali, mettendo da parte le lancette della politica della rappresentanza.

D’altronde dopo il 30 novembre il presente dei movimenti non è più così remoto, e sincronizzare i molteplici scioperi metropolitani è la tendenza che si dirige già oltre il 14 dicembre, verso il futuro che ai movimenti appartiene.

Fulvio Massarelli

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