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Salvini si prova la felpa da premier

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Salvini fa il premier e i sindacati gialli e la Confindustria lo legittimano. Si potrebbe riassumere così l’incontro di ieri al Viminale con le cosiddette “parti sociali”. Ma è importante soffermarsi un attimo in più su questa considerazione e sottrarsi al rumore di fondo della scorrettezza istituzionale che affolla i giornali, croce e delizia liberale. L’incontro era previsto da tempo e si consacra sotto il segno della crescita.

Un’interlocuzione che viene da lontano e che si poteva intuire nella convergenza tra Confindustria, sindacati confederali e leghisti a partire dalle dichiarazioni quasi identiche su grandi opere inutili, devastazione ambientale, reddito di cittadinanza e decreto dignità. Ieri è stata sancita dalla discussione rispetto alla flat tax salviniana, ma soprattutto nel dissenso comune al provvedimento grillino del salario minimo. Il salario minimo è di fatto uno dei pochi provvedimenti sociali che può ancora risollevare minimamente il consenso di Di Maio e soci, a tutti gli effetti diventati contraenti di minoranza del contratto di governo. E quale soluzione migliore per silurarlo e continuare l’accerchiamento dell’alleato da parte leghista se non sostenendo il fronte delle “parti sociali” che si contrappongono alla proposta?

Eh già perché anche in questo caso il partito degli imprenditori, Cgil, Cisl e Uil sono dello stesso avviso rispetto alla norma di dignità minima che vede in questo momento persino un riscontro europeo. Ma il vero punto di per sé non è il salario minimo, quanto “l’anomalia normalizzata” che rappresentano ancora i 5stelle o meglio le serie di contrapposizioni al dogma della crescita e del PIL che hanno rappresentato sul piano istituzionale. Oggi tanto la Lega quanto gli industriali e i sindacati hanno la necessità di disarticolare le rigidità, seppur minime, che i grillini pongono confusamente, per continuare ancora più violentemente il ciclo di privatizzazione, di flessibilizzazione del lavoro, di devastazione del welfare e deregolamentazione dell’iniziativa capitalistica per l’istaurazione di un keynesismo finanziario che faccia da controcanto tanto all’austerity quanto al molle riformismo pentastellato. Bisogna colpire duro per riaffermare che non c’è nessuna, per quanto tenue, alternativa. I sindacati si prestano all’iniziativa affamati di rilegittimazione come forza sociale dopo la disintermediazione prima di Renzi e poi, in maniera diversa, dei 5stelle. Devono da un lato dare contezza al corpaccione di pensionati e lavoratori integrati che rappresentano e che sempre più spesso hanno simpatie leghiste e dall’altro farsi agenti della riedizione di un patto sociale stanco e impossibile tra lavoro, crescita e finanza. Per fare ciò sono disposti a sedersi al tavolo non solo con la Confindustria (pratica ormai abituale e scontata), ma anche con Salvini e con Siri.

Non si tratta semplicemente di un tentativo di “restaurazione” (non è mai solo questo), ma a suo modo è un’innovazione, con il manifestarsi sempre più politico del trasversale partito del PIL. Questo farsi politico però contiene una paura inconfessabile, uno spettro: la stabilità dei rapporti di classe nel nostro paese non è garantita e bisogna evitare ad ogni costo, colpendo per primi, che le contrapposizioni implicite tracimino la loro rappresentazione istituzionale, miserrima, del grillismo per farsi a loro volta politiche e magari affollare le piazze.

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