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Centinaia di indigeni occupano il cantiere della diga di Belo Monte

Se il progetto venisse ultimato, si tratterebbe della terza diga idroelettrica del mondo per ampiezza, un danno irreparabile per l’ecosistema della zona dal momento che il progetto modificherebbe l’assetto idrografico del fiume Xingu, cancellerebbe ettari di risorse naturali nel cuore della foresta amazzonica ed eliminerebbe le fonti di sostentamento agli indigeni della zona, che si vedrebbero sottrarre una grossa porzione di territorio dal quale sarebbero costretti ad andarsene.

Al momento la diga non è stata costruita ma l’area di Belo Monte è occupata da un enorme cantiere avviato ormai da un paio d’anni, quando il travagliato e contestatissimo iter del progetto ha ottenuto il via libera giudiziario dopo numerosi stop per motivi ambientali e non.

Dall’inizio del cantiere gli indigeni sono insorti a più riprese per ostacolare i lavori e chiedere che la costruzione della diga venga bloccata; venerdì 200 di loro hanno occupato uno dei tre siti di costruzione, paralizzando i lavori e bloccando ruspe e 3000 operai (dei più di 20.000 che verrebbero impiegati nel progetto). La notizia della protesta ha subito raccolto l’appoggio di altre tribù distribuite sul territorio, che hanno promesso di raggiungere Belo Monte per sostenere la lotta contro la diga.

Di fronte al riaccendersi della protesta il governo ha proposto agli indigeni un colloquio, disponendo però che questo avvenisse non nel cantiere ma in un vicino centro abitato: una proposta che è stata rispedita con forza al mittente da parte delle tribù, che hanno dichiarato di non essere disposte ad abbandonare l’occupazione di Belo Monte fino a quando i lavori non verranno interrotti, operai, mezzi e polizia allontanati dall’area e il governo non avvierà una consultazione seria sul progetto e sugli impatti devastanti che avrebbe sul territorio.

Il progetto della diga ha da subito polarizzato gli interessi sul campo: da un lato quelli economici del governo e delle ditte coinvolte nel progetto (che fa gola a diverse multinazionali), dall’altro quelli degli indigeni decisi a non farsi sottrarre il proprio territorio in nome di un ‘progresso’ che ancora una volta ha le sembianze di decisioni calate dall’alto e parla il linguaggio della devastazione e del profitto.

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