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Chi pagherà la crisi? Alcune riflessioni sull’attuale dibattito economico

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Riceviamo e pubblichiamo volentieri…

La crisi economica è appena cominciata e molti esponenti della classe dirigente stanno già provando a riciclarsi con soluzioni che possono apparire innovative, come l’indebitamento degli Stati europei per sostenere il settore privato. In questo clima di confusione è quindi importante provare a fare chiarezza sui termini della questione e sulle possibili vie d’uscita

di Giovanni Castellano

Con il passare del tempo cresce la consapevolezza del dramma economico che dovremo fronteggiare in seguito all’evolversi delle crisi dovuta alla diffusione a livello globale del Coronavirus. È davvero troppo presto per capire la portata del fenomeno, ma tra gli economisti prevale l’idea che molto probabilmente siamo di fronte ad una crisi decisamente più forte di quella nata una dozzina di anni fa negli USA. Partendo dal dato italiano, le previsioni sul crollo del reddito nazionale e la conseguenziale impennata dei livelli del deficit e del debito pubblico offrono un quadro davvero sconcertante che non può essere sottovalutato da nessuno.

La tragicità della situazione ha portato ad alcune pesanti prese di posizione da parte di importanti esponenti della classe dirigente italiana ed internazionale; prese di posizione che, se non analizzate attentamente, potrebbero apparire rivoluzionarie, in quanto mettono in discussione verità che sembravano intoccabili fino a pochi giorni fa’. In particolare, la Commissione Europea ha sancito la possibilità di andare oltre i vincoli previsti dal Patto di Stabilità, tenendo conto della necessità di far fronte alle maggiori spese dovute all’emergenza in atto. Si tratta, più che altro, di una presa d’atto, in quanto sarebbe assurdo pretendere il rispetto di tali parametri da parte di Paesi impegnati a fronteggiare una catastrofe sanitaria senza precedenti.

È importante invece analizzare il clamore suscitato dalle dichiarazioni di Mario Draghi nel suo famoso intervento sul Financial Times. In questo suo intervento Draghi, sottolineando la drammaticità della situazione, ha ribadito la necessità che gli Stati europei facciano ricorso ad un massiccio indebitamento al fine di risollevare l’economia, in quanto il settore privato non è in grado di far ripartire l’economia europea.

Le dichiarazioni sono state accolte con un consenso unanime da parte di tutto il mondo politico e tanti hanno visto in queste parole quasi una volontà di ridiscutere le teorie neo-liberiste. È necessario quindi comprendere bene cosa può significare questa proposta, al fine di comprendere se effettivamente siamo di fronte ad un’inversione di tendenza da parte di un personaggio che rappresenta indubbiamente un punto di riferimento dell’estabilishment mondiale.

Un’analisi più attenta del contesto consente di capire che Mario Draghi non è improvvisamente diventato un socialista, né può essere considerato un novello salvatore della Patria; Mario Draghi resta un importante rappresentante degli interessi della grande finanza globale come dimostra tutta la sua carriera, a partire dalla carica di vice amministratore della Goldman Sachs fino alla presidenza della BCE (quando contribuì a mettere in ginocchio la Grecia), passando per la presidenza della Banca d’Italia e la direzione del Tesoro, dove fu grande promotore del processo di privatizzazione nel nostro Paese.

La circostanza che gran parte della classe politica italiana abbia iniziato a credere nella possibilità che lo Stato intervenga in economia, aumentando il deficit, non implica necessariamente che siamo di fronte ad un ripensamento delle politiche attuate finora.

Lo scopo di questo indebitamento non riguarda infatti il miglioramento dello Stato sociale o la riduzione del carico fiscale sulle classi meno abbienti, ma deriva dalla necessità di andare incontro alle aziende private in difficoltà, secondo la consueta logica di chi vuole socializzare le perdite e privatizzare i profitti. Ovviamente, quando si parla di un settore privato in difficoltà non si fa tanto riferimento al tessuto economico italiano, composto in particolar modo da piccole imprese e lavoratori autonomi, bensì ai grandi gruppi imprenditoriali.

In poche parole, quando le grandi imprese generano grandi profitti questi restano in capo agli azionisti, mentre quando si registrano delle perdite queste vengono addebbitate ai contribuenti, costituiti per lo più da lavoratori dipendenti e pensionati.

Allo stato attuale nessuno può negare che un’eventuale ripartenza del Paese debba per forza di cose venire da un massiccio intervento pubblico, in quanto gli investimenti privati in quest’occasione saranno veramente scarsi. Però è opportuno ribadire che, se lo Stato deve assumersi le responsabilità di far fronte alla crisi, è anche giusto che prenda il controllo dei settori strategici della produzione, orientando la stessa secondo gli interessi della collettività.

Va ripensato quindi l’intervento dello Stato nell’economia, in quanto quest’ultimo non può semplicemente essere un salvagente per il capitale privato in difficoltà, ma deve svolgere un ruolo di impulso decisivo, a partire da settori centrali come la sanità e la ricerca, nei quali ha disinvestito finora.

Inoltre da subito va rivendicata l’attivazione di un reddito di emergenza per tutti i soggetti che si trovano nell’incapacità di far fronte alle esigenze della vita quotidiana, a partire dall’alloggio, dalle utenze e dai beni di prima necessità.

Tutte queste misure richiedono un massiccio intervento dello Stato e, pertanto, nei prossimi mesi assisteremo inevitabilmente ad una consistente crescita del debito pubblico; deve essere quindi ben chiaro a tutti cosa può comportare quest’incremento negli anni a venire. Anche se per un breve periodo possiamo fare a meno dei vincoli di Maastricht, i debiti che contraiamo in questo periodo andranno molto presto pagati, insieme ai relativi interessi, e questo vuol dire che le classi popolari ci rimetteranno nuovamente, dovendo subire, ancora una volta, un aumento dell’imposizione fiscale e una riduzione del Welfare State.

Per far fronte all’enorme quantità di debito pubblico che si renderà necessario non basteranno assolutamente delle semplici mosse di politica economica, come l’introduzione di una tassazione patrimoniale sulle grandi ricchezze o una riduzione delle spese militari; questi interventi possono essere utili ma non sono sufficienti per risolvere il problema.

In questo caso sarà indispensabile, infatti, ricorrere a politiche monetarie espansive; sarà necessario stampare nuova moneta, proprio come sta avvenendo in tante altre parti del mondo, a partire dagli USA, dove le banche centrali stanno ampliando la base monetaria acquistando, su richiesta dei governi, i titoli del debito pubblico emessi per fronte all’esigenza di combattere la crisi, sterilizzando conseguentemente tale nuovo debito. Attraverso questa imponente iniezione di liquidità i governi cercano, evidentemente, di aiutare il grande capitale in affanno per il possibile calo della domanda interna e degli investimenti privati, ma ciò non toglie che un’operazione del genere possa essere utilizzata per rafforzare lo Stato sociale e aiutare i ceti popolari ad affrontare la crisi in atto.

Purtroppo la Banca Centrale Europea non può adottare politiche simili, in quanto il suo statuto considera l’acquisto dei titoli del debito pubblico un indebito aiuto ai governi nazionali e, nella visione neo-liberista basata sulla prevalenza dei mercati, questo è visto come “un peccato mortale”.

Quando la BCE ha provato, attraverso il meccanismo del Quantitative Easing, ad emettere nuova moneta cercando di aggirare tale divieto, non ha potuto fare altro che finanziare le banche private affinché queste ultime acquistassero le obbligazioni statali (mercato secondario), dal momento che non era possibile acquistare i titoli all’atto dell’emissione (mercato primario). Con l’ovvia conseguenza che gran parte della nuova moneta è finita nei mercati finanziari. Le banche commerciali, da parte loro, hanno potuto lucrare sulla differenza tra il tasso d’interesse bassissimo offerto della BCE e il più alto tasso d’interesse pagato dagli Stati.

Inoltre, con questa manovra, la BCE non è intervenuta solo sui titoli dei Paesi in difficoltà, in quanto gli acquisti sono avvenuti in proporzione al capitale versato dai singoli Stati presso la BCE, con l’assurda conseguenza che il principale beneficiario della misura è stato il governo tedesco, il quale non aveva certamente problemi di finanziamento del debito pubblico.

Il problema non è quindi l’egoismo di alcuni Paesi dell’Europa settentrionale che provano a difendere i propri interessi nazionali. La vera questione da comprendere è che, anche se tante persone hanno ceduto al fascino del sogno europeo, l’Unione Europea non è un’istituzione sorta sulla base del sentimento di fratellanza tra i popoli europei. Basta leggere i suoi trattati fondativi per capire che siamo di fronte alla precisa volontà del capitale finanziario europeo di limitare gli spazi di democrazia all’interno dei Paesi membri, favorendo l’emergere di un’elité tecnocratica che non risponda ad alcun tipo di controllo popolare, ma all’esclusivo interesse del grande capitale sovranazionale.

In molti Paesi europei, infatti, il potere economico aveva dovuto trovare un compromesso con le rivendicazioni sociali avanzate dai lavoratori, e ciò ha portato all’espansione dei moderni sistemi di Welfare State. Con l’avanzata dell’ultimo processo di globalizzazione, questo compromesso è inziato ad andare stretto ad una classe dirigente che ha trovato nell’Unione Europea un modo per superare le legislazioni sociali nazionali e imporre il pensiero unico neo-liberista ai popoli indisciplinati.

È necessario, quindi, che i movimenti sociali che lottano per costruire un’alternativa a tale modello di sviluppo prendano atto dell’impossibilità di uscire da questa crisi senza rompere la gabbia dei trattati europei. Qualsiasi ipotesi di riformare la struttura degli organismi europei si scontra, infatti, con la constatazione che anche la più piccola modifica dei trattati non può prescindere dalla ratifica di tutti gli Stati membri e, pertanto, basterebbe la mancata approvazione da parte di uno qualsiasi dei 27 Parlamenti nazionali per vanificare lo sforzo.

Tuttavia, la richiesta di riappropriarsi degli strumenti di politica economica e monetaria non va intesa in alcun modo come un rigurgito nazionalistico; anzi, può essere l’unico modo per evitare di consegnare il sentimento di rabbia verso le istituzioni comunitarie alle forze conservatrici che intendono liberarsi dai vincoli europei, continuando però ad adottare soluzioni neo-liberiste su scala nazionale.

Bisogna invece vedere nella rottura dei trattati europei un modo per sottrarre alla tecnocrazia europea le leve fondamentali dell’economia e della finanza, sottoponendole a nuove forme di controllo popolare, al fine di promuovere un radicale processo di trasformazione economica.

Solo dopo aver riconquistato la capacità di decidere sul proprio avvenire è possibile prendere in considerazione la possibilità di nuove forme di integrazione, in chiave internazionalistica, tra i popoli europei, da estendere ai vicini popoli della sponda meridionale del Mediterraneo.

Questa crisi si sta rivelando davvero drammatica, sia da un punto di vista sanitario che da un punto di vista economico, ma, d’altra parte, sta portando alla luce tante contraddizioni nel modello economico dominante.

Nei prossimi mesi si combatterà dunque una dura battaglia perché, inevitabilmente, le classi dominanti proveranno a far ricadere le conseguenze della crisi sui ceti popolari. In questo momento diventa quindi di vitale importanza capire che non sarà possibile immaginare alcuna alternativa all’attuale modello di sviluppo, finché le leve fondamentali dell’economia saranno in mano ad un’elité tecnocratica che non risponde in alcun modo alla volontà popolare, ma esclusivamente agli interessi della grande finanza internazionale.

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