Effetto Tunisia? I rais si preoccupano…
Preoccupazione ma anche speranza, questi sentimenti stanno informanto, nella lor antiteticità, il cuore di molti in Medio Oriente ed nel Maghreb. I segnali premonitori, seppur nella loro potenzialità, sono chiari ed esplosivi. Il timore dei governi è quello che la rivolta della Tunisia, con la cacciata del rais Ben Alì, assuma un effetto a macchia d’olio: “la rivoluzione dei gelsomini”, come la stampa mainstream la sta definendo, è da annoverare tra le unicità e novità nel mondo arabo.
Non sono casuali i commenti usciti questi giorni in Occidente, tra il timore di nuove sommosse contro gli alleati filo-occidentali sulle sponde del Mediterraneo ma anche dell’incremento di ulteriori fenomeni migranti verso Nord. Il New York Times ha scritto che quanto sta succedendo a Tunisi è “una lezione ai leader arabi, che ha elettrizzato la regione”, con “i più entusiasti sostengono che si tratta della Danzica araba” (allusione alla città portuale polacca da cui nel 1980 partì la rivolta di Solidarnosc). Le Monde si è invece chiesta se si vada verso “una primavera democratica araba”, con la fuga di Ben Ali che segna la fine “dell’eccezione arabo-musulmana” nella caduta delle dittature che ha segnato la fine del ‘900 nell’Europa orientale e in America latina. Le affermazioni falsamente presuntuose del ministro degli esteri d’Egitto Ahmed Abul Gheit confermano il contrario: ipotesi d’effetto a macchio d’olio “insensata”…
Ma al di là delle dichiarazioni, delle ipotesi e dei commenti, è ben più interessante guardare a quanto sta avvenendo sul reale:
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Giordania – 3mila persone, appartenenti al sindacato ai partiti di sinistra e alle formazioni musulmane, hanno manifestato sotto il Parlamento di Amman, riunito per esaminare il prezzo dei generi alimentari, protestando contro l’inflazione e la politica economica governativa. Solidarietà con la Tunisia che si rivolta ma anche affermazioni di liberazione: “Con i tunisini che si sono liberati del loro dittatore”, “Il popolo giordano non accetta di essere affamato”, “Per quanto tempo continueremo a pagare il prezzo dei furti e della corruzione?”, “Una rivoluzione si sta diffondendo, Mubarak (il presidente egiziano, ndr) è il tuo turno”.
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Yemen – Un migliaio di studenti ha manifestato a Sanaa per chiedere ai popoli arabi di sollevarsi contro i dirigenti dei loro paesi come hanno fatto in Tunisia. Gli studenti sono usciti dal campus dell’università e si sono diretti verso l’ambasciata della Tunisia. Nel mirino dei giovani in particolare il presidente yemenita Ali Abdallah Saleh, al potere da 32 anni, “rieletto” nel 2006.
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Libia – Emblematico quanto successo anche nel paese del signor Gheddafi, che intervenendo in tv per condannare quanto successo in Tunisia ha causato lo scoppio di tensioni e scontri nel paese: al-Bayda, Benghazi, Darnah e nella stessa Tripoli i teatri del conflitto. A Benghazi sono stati bruciati diversi negozi d’alimentari.
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Oman – Per le strade di Mascate, capitale del sultanato, uno dei piu’ conservatori Stati del Golfo, circa 200 persone hanno manifestato contro il caro vita. “L’impennata dei prezzi ha distrutto i sogni dei semplici cittadini”, proclamava uno striscione issato davanti ad un edificio ministeriale.
Dentro questo panorama non è certo da escludere l’Egitto del moribondo Mubarak, il faraone rimasto in piedi dopo la tornata elettorale e le spinte innovative che ha percorso il paese anche attraverso la figura di El Baradei. Oggi, davanti all’Assemblea del popolo de Il Cairo un uomo di è dato fuoco, emulando quanto ha costituito il simbolico start in Tunisia con la morte di Sidi Bouzid, lo stesso è avvenuto anche in Mauritania. I blogger egiziani, nel solidarizzare con il popolo tunisino in rivolta, stanno moltiplicando gli appelli all’agitazione.
“Rivolte del pane”, così sono state definite le esplose o potenziali rivolte di questo inizio 2011 nel Maghreb, per quanto questa definizione sia limitata rispetto all’evoluzione della posta in gioco e l’estensione e l’eccedenza delle istanze di trasformazione. Nonostante sia estremamente interessante il panorama analitico abbozzato questa mattina su Il Sole 24 Ore:
Un fenomeno che si ripete a ogni latitudine e con preoccupante frequenza. Se infatti per tre quarti del secolo scorso il fenomeno è stato pressochè sconosciuto (alla base delle sollevazioni c’erano solo motivi etnici, religiosi o razziali), dal 1977 (quando in gennaio l’Egitto lamentò circa 800 morti per l’aumento repentino dei prezzi di molti alimenti voluto dal Fmi) all’82 vi furono ben 146 casi, con una recrudescenza (24 casi, molti dei quali gravi) nell’ultimo quadriennio. La casistica di questo periodo è ampia. Nel febbraio 2007 l’aumento del 400% del prezzo del mais portò nelle strade del Messico molte decine di migliaia di diseredati, per i quali il prezzo delle tortillas, l’alimento-base per oltre 110 milioni di abitanti, diventava insostenibile. Fenomeno che ha minacciato di ripetersi alcune settimane orsono (+50% di aumento del mais), costringendo il governo del presidente Felipe Calderón a intervenire creando una sorta di mercato di futures sulla materia prima per calmierare le quotazioni. Solo nel settembre scorso in Mozambico vi furono sei morti, decine di feriti e circa 150 arresti per il brusco aumento (oltre il 30%) dei prezzi di carburante e generi alimentari reso più acuto dal forte calo del valore del metical, la valuta locale, rispetto al rand sudafricano, da cui proviene oltre un terzo dell’import. E poi, tra i tanti, Argentina, Tagikistan, Egitto e Pakistan. I prossimi candidati alle rivolte? Un ottimo rivelatore può nascere dall’incrocio dei dati della situazione socio-economico-finanziaria con la situazione agro-alimentare. E allora tutta l’Africa, appena ci si azzardi a toccare i citati prezzi politici, può esplodere. Senza dimenticare vari paesi caraibici, ma anche alcuni giganti asiatici (alcune regioni dell’India e dell’Indonesia) e, secondo un’ipotesi formulata nelle scorse settimane dalla Bbc, addirittura l’Iran.
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