Esercito e crisi: eserciti in crisi?
Disordini di piazza, rischi diretti per soldati e civili americani ma anche cancellazione di importanti commesse militari: sono questi i timori che il Pentagono nutre guardando a un’Europa afflitta dalla crisi del debito sovrano e inguaiata tanto da poter precipitare in quella che gli analisti militari definiscono «situazione di frattura».
A sollevare la questione delle analisi redatte dai pianificatori della Difesa è stato il generale Martin Dempsey che da settembre ricopre l’incarico di capo degli Stati Maggiori Congiunti – in soldoni il più importante consigliere militare dell’amministrazione Obama. Invitato a parlare a Washington davanti alla platea del centro studi dell’«Atlantic Council», il generale, incalzato dalle domande del noto editorialista del «Washington Post» David Ignatius, ha ammesso di essersi incontrato la scorsa settimana con Ben Bernanke, presidente della Federal Reserve. L’incontro sarebbe durato due ore e si sarebbe reso necessario per approfondire situazioni di potenziale emergenza strategica correlate alla grave crisi dell’Eurozona.
Il tema dell’incontro, a quanto ne sappiamo, è stato proprio la sovrapposizione fra crisi del debito sovrano, violente proteste di piazza come quelle avvenute ad Atene o Roma (citate esplicitamente dall’alto ufficiale), e gravi problemi di bilancio in nazioni alleate con le quali gli Stati Uniti condividono ad oggi il mantenimento della struttura militare della Nato.
Sembrerebbe insomma che l’accordo raggiunto al Consiglio europeo di Bruxelles sulla fiscalità unica europea, nonostante l’ulteriore cessione di sovranità che comporta, in una cornice di controlli molto severi, ancora non basti a rassicurare gli USA, i cosiddetti “mercati”, e ad allontanare lo spettro del collasso della moneta unica.
Proprio sullo sfondo di questo quadro Dempsey ragiona gli aspetti prettamente militari negli scenari possibili dell’eurocrisi: dapprima paventa il rischio che il personale militare americano in Europa possa trovarsi esposto a rischi potenziali dovuti a disordini civili e alla rottura dell’Unione. I rischi concernono tre aspetti in particolare: rivolte di piazza, fallimento delle banche dove i militari hanno i depositi e sospensione delle forniture di servizi alle basi, dall’elettricità fino all’acqua. Sebbene si tratti solo di scenari immaginati al Pentagono tocca prenderli abbastanza sul serio contando solo in Europa su un totale di ottantamila truppe e circa ventimila dipendenti civili, spesso accompagnati da famigliari.
Sappiamo, grazie anche al lavoro di alcuni compagni che qualche anno fa hanno curato un bell’opuscolo intitolato “Eserciti nelle strade”, dell’esistenza di un rapporto NATO sulle future operazioni militari che nei prossimi anni (l’orizzonte è quello di un prossimo 2020), interesseranno soprattutto città e contesti urbani. Preso atto che il più alto tasso di inurbamento del globo si dà proprio in Europa, la quale dovrebbe passare nei prossimi decenni all’ottanta percento di popolazione urbana sul totale e che le tensioni sociali e l’impoverimento di cui parla il rapporto possono essere tranquillamente pensate in un contesto europeo in cui gli stati si ritirano progressivamente dalla spesa pubblica accentuando nelle città degrado e crescita disordinata, il monito di Mike Davis – “al posto delle città di luce che si slanciano verso il cielo, gran parte del mondo urbano del XXI secolo vivrà nello squallore, circondato da inquinamento, escrementi e sfacelo”- dovrebbe preoccupare anche le coscienze europee.
Tanto le dichiarazioni di Dempsey quanto il rapporto Nato citato sono importanti non solo perché gettano una giusta luce sul senso profondo di abituare i cittadini a vedere i soldati e i mezzi militari pattugliare le strade, i cantieri come quello di Chiomonte, le discariche come in Campania o magari, molto presto, le banche o Equitalia; ma anche perché ci mostrano una volta di più quale sia la natura ambivalente degli eserciti.
L’articolo però getta anche una flebile luce di speranza sul rapporto , in verità annichilente, redatto dalla Nato, mostrandoci in fondo come la vulnerabilità cui il sistema finanziario ha esposto (o meglio sovraesposto) le nostre vite, mettendo a repentaglio risparmi, fondi pensione e trascinando l’economia in una spirale che stringe in maniera devastante su costi e condizioni di lavoro, riguarda anche interessi strategici dello stato, come appunto il settore militare. Gli apparati militari di per sé non possono sottrarsi alle tempeste finanziarie che si stanno scatenando ormai con esiti imprevedibili, avendo anch’essi investimenti importanti nelle borse mondiali e dipendendo in maniera determinante da meccanismi che si danno nel mercato e nel mondo civile (approvvigionamento di acqua ed elettricità per esempio).
L’ultimo, non certo per importanza, elemento di preoccupazione espresso da Dempsey è per la sorte del programma F-35, ovvero il Joint Strike Fighter progettato per diventare l’aereo del XXI secolo dell’Alleanza atlantica. Si tratta del programma più costoso intrapreso dal Pentagono, la cui realizzazione è in corso in più località degli Stati Uniti, in Gran Bretagna nonché in Italia, nell’impianto piemontese di Cameri, dove da tempo comitati popolari e territoriali protestano contro la costruzione di questi sofisticatissimi veicoli di morte. Il generale esprime il timore che “se le difficoltà economiche dell’Eurozona aumenteranno gli alleati potrebbero essere spinti a ricollocare altrove le risorse destinate al F-35». A dirla tutta non sembra che al momento le spese militari risentano di queste tendenze. L’Italia ad esempio vede crescere costantemente, di anno in anno, il budget dedicato agli armamenti. Il 2011 rispetto all’anno precedente (già da record) ha fatto segnare un aumento delle spese militari di 3,4 miliardi di euro. Resta da capire se e quanto possa durare tanta mortifera prodigalità.
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