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I minatori non si arrendono: l’azienda sfruttatrice deve attendere

La miniera di platino Lonmin di Marikana, in Sudafrica, resta ferma. E la tensione resta alta nella regione mineraria a nord-ovest di Johannesburg, teatro del conflitto che la settimana scorsa ha fatto 44 morti di cui 34 massacrati giovedì dalla polizia, episodio che ha richiamato i momenti peggiori dell’apartheid.
La miniera non ha ripreso la produzione, ha comunicato ieri l’azienda. E non poteva: solo il 27% dei minatori addetti ai pozzi ha accettato di presentarsi al lavoro. Dunque tre quarti dei rock drill operators, gli addetti a far esplodere rocce decine di metri sottoterra, non hanno accettato l’ultimatum dell’azienda, che domenica minacciava di licenziare chi non fosse tornato al lavoro ieri (ma poi ha spostato l’ultimatum a oggi, martedì).
«Aspettarsi che torniamo indietro è un insulto. Molti nostri amici e compagni di lavoro sono morti, e ora vogliono che torniamo al lavoro», diceva ieri un minatore, Zachariah Mbewu, al reporter del settimanale Mail and Guardian: «Se l’azienda non ci dà quello che chiediamo torneremo sulla montagna», concludeva, intendendo la collina di roccia che sovrasta la miniera, dove i minatori in sciopero sono rimasti accampati la scorsa settimana. «E’ un lavoro così duro, e una paga così misera. E’ come andare a morire», dice un altro lavoratore, Thulani, all’agenzia Reuter. Sono loro, i 3.000 addetti al lavoro più duro e pericoloso nei tunnel sotterranei che il 10 agosto hanno dichiarato lo sciopero, costringendo l’azienda a fermare l’intera miniera (che impiega 28mila persone). I tecnici stimano che senza almeno l’80% dei rock drill operators non si può riprendere la produzione.
Il presidente Jacob Zuma, che ha dichiarato una settimana di lutto nazionale, domenica ha nominato una commissione interministeriale di indagine: include quasi tutto governo (i ministri delle risorse minerarie, del Nord-ovest, della polizia, affari interni, sicurezza dello stato, difesa, sviluppo sociale, governance tradizionale, lavoro, delsanità, e quello della presidenza a coordinare il gruppo). Ieri sono andati a Marikana «per assistere famiglie e comunità colpite dai disordini». Ma non sarà facile far calare la tensione. 
Ieri una gran folla, tra cui un centinaio di donne arrivate dalle baraccopoli di Marikana, era davanti al tribunale in un sobborgo di Pretoria dove si tenuta la prima udienza per i 260 minatori arrestati durante lo sciopero. Le accuse vanno da atti di violenza a omicidio o tentato omicidio; ieri i magistrati hanno confermato il fermo, in blocco, in attesa di indagini (mentre gli atti venivano tradotti nelle numerose lingue degli operai, molti immigrati da regioni lontane del paese). I cartelli erano eloquenti: «rilasciate i lavoratori», «i lavoratori sono innocenti».
I cronisti hanno potuto raccogliere nuove testimonianze di una rabbia profonda. La donna che è arrivata dalla regione del Capo, cinque figli, se il marito non guadagna chi li sfamerà? o il minatore che racconta di lunghe giornate di lavoro, «a volte stiamo 14 ore sottoterra, ma non ci pagano lo straordinario», e di una paga che non basta per affittare una casa e quindi vive in una baracca.

Tra questi lavoratori hanno trovato risonanza le parole dell’ex leader della Youth Lugue (la Lega giovanile) dell’African National Congress, Julius Malema, che sabato in un infocato discorso a Marikana ha chiesto di nazionalizzare le miniere. Non solo: ha detto che i minatori muoiono «per difendere gli interessi di Cyril Ramaphosa», l’ex dirigente della Num durante la lotta anti-apartheid che oggi siede nel consiglio d’amministrazione di Lonmin. Malema, espulso di recente dall’Anc per le sue posizioni estreme (e la sua scalata al potere interno), ne ha approfittato per chiedere le dimissioni del presidente della repubblica («Zuma dice che la polizia deve usare il massimo della forza. … è responsabile del massacro della nostra gente»). 
Tutti i dirigenti politici e dell’opposizione ieri sono andati in «sopralluogo» a Marikana, prima del dibattito parlamentare straordinario convocato oggi. Zuma ha ripetuto il suo appello alla «pace, stabilità e ordine» e «unirsi contro la violenza», senza «accuse e recriminazioni». Ma la crisi aperta dal massacro di Marikana chiederà qualcosa di più. 
L’operato della polizia è sotto i riflettori. Per quanto i minatori fossero armati e minacciosi la risposta «va oltre ogni limite», commentava ieri il Mail and Guardian: il massacro segna «uno spartiacque nelle politiche post-apartheid», e rivela che la polizia continua a essere improntata alla politica «sparare per uccidere». Non solo: accusa il governo del Anc di non aver saputo trasformare né la polizia, né la vita politica e la governance. 
Certo, c’è chi sostiene il contrario: «Quella \ è una zona di guerra, e lacrimogeni o proiettili di gomma sarebbero stati del tutto inefficaci», scrive un esperto di sicurezza sul giornale Rapport. Gli fa eco la capo della polizia, Riah Phiyega: rivolta agli ufficiali ieri ha detto «non avete nulla di cui essere spiacenti».

(di Marina Forti per Il Manifesto)

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