Il burrone è sempre lì
Le sirene continuano ad annunciare la fine della crisi. Le classi dirigenti collocate nelle istituzioni e nelle imprese sostengono che almeno sul versante finanziario sia in corso la ripresa e che presto si incominceranno a vederne gli effetti anche sul fronte dell’economia reale. Ogni occasione è quella giusta per confermare questa interpretazione ottimistica. Dalla ripresa del mercato immobiliare negli Usa alla crescita dei consumi interni della Cina, passando per la riduzione degli spread sui titoli pubblici europei. Tendenze che per il momento appaiono modeste, ma sufficienti per aggrapparcisi. D’altronde il sistema funziona se preliminarmente gode di fiducia. Tale approccio non solo è spinto in campo liberista, ma inizia a far proseliti anche fuori da questo perimetro fino a prefigurare un keynesismo statunitense da contrapporre alle politiche di rigore e austerity europee.
Federico Rampini recentemente ha sostenuto, in maniera piuttosto audace, che l’accordo parlamentare negli Usa, per scongiurare il cosiddetto burrone fiscale, rappresenti «la fine del pensiero unico» e sancisca che «equità e crescita devono venire prima del rigore». Tale accordo sembrerebbe invece un compromesso tra i repubblicani che accettano un aumento delle tasse e i democratici che rinunciano a una vera redistribuzione dei redditi. Gli elementi di continuità con il passato, infatti, sono più corposi di quanto si prova a sostenere, per quanto non vada sottovalutato l’aumento delle tasse per il 2% più ricco della popolazione, una novità rispetto agli ultimi 15 anni. Come va registrato un aumento, seppur modesto, della tassazione sulle rendite finanziarie. Ma il ritorno del principio di far pagare la crisi ai più ricchi è accompagnato dalla mancata esclusione dei tagli alle tasse e trattenute sui salari, per cui 160 milioni di americani avranno ridotta la prossima busta paga del 2%. Inoltre sono previsti dei tagli al Medicare (sanità) mentre vengono rinviati possibili tagli al Pentagono. Ma soprattutto tra le righe di questo accordo si registrano sgravi e incentivi destinati direttamente alle imprese per un importo pari a 46 miliardi di dollari annui.
Complessivamente, dunque, un accordo che se da un lato evita lo scatto automatico di tagli lineari alla spesa e aumenti fiscali diffusi, dall’altro produce un ulteriore aggravvio alle casse statali calcolato in 3900 miliardi in dieci anni. Questo è il punto. Il debito pubblico americano dalla crisi è quasi raddoppiato in termini nominali, la Fed inonda il mercato di carta moneta a tempo indeterminato e l’economia reale sopravvive mediante incentivi pubblici che è impensabile sospendere. L’accordo aggiunge un po’ di equità senza inaugurare nuove formule per la crescita. In questi anni i debiti privati si sono trasformati in debiti pubblici e questi crescono senza riuscire a far ripartire l’economia. Il capitalismo contemporaneo, come sostiene Christian Marazzi, prova a risolvere finanziariamente le proprie contraddizioni, anche se sono generate proprio nella dimensione finanziaria. Le costanti iniezioni di liquidità fanno crescere le borse e favoriscono il ritorno degli investimenti azionari, ma non si vede nessuna ricaduta sulla vita delle persone. I nodi sono più strutturali di quanto si voglia far credere. Se l’economia in carne e ossa non si riprende, il rischio bolle non è certo risolto. Gli artifizi finanziari non possono durare a lungo.
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