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Il Niger e il Ribollire Africano

Riceviamo e pubblichiamo volentieri da La Causalità del Moto

Che succede in Niger, fra i paesi confinanti come il Burkina Faso, il Mali e tutta l’area del Sahel?

Dai giornali occidentali apprendiamo ci sarebbe stato un nuovo colpo di Stato diretto da una giunta di militari che comanda la Guardia Presidenziale dell’Esercito del Niger. Poi però le immagini mandate in onda su tutti i canali televisivi ci mostrano manifestazioni popolari di sostegno al “colpo di Stato”, non solo, ma che i manifestanti innalzano cartelli di condanna nei confronti della Francia e inneggianti a Putin. I riflettori dei media Occidentali si accendono sull’Africa commentando i fatti con serissima preoccupazione. Intanto, a Niamey c’è un fuggi fuggi generale di civili stranieri Francesi, Italiani ed Europei che si trovano in Niger, mentre le forze militari in missione di Stati Uniti, Francia e Italia si barricano nelle rispettive basi militari presenti nel paese. Gli Stati Uniti, che hanno decuplicato il numero delle basi militari in Africa dagli anni di Obama ad oggi (almeno una dozzina concentrata nella regione del Sahel e sei proprio in Niger), temono di perdere il loro migliore ed ultimo avamposto nel West Africa.

E allora cerchiamo di capirci di più, senza nasconderci dietro il dito e da subito diciamo che l’esultanza di masse di oppressi e sfruttati africani è un ulteriore segnale della fase di destabilizzazione del modo di produzione a egemonia occidentale, altrimenti detto: la rivoluzione procede il suo inarrestabile corso.

Questo colpo di mano di una unità d’élite dell’Esercito del Niger – di cui molti comandanti ed esponenti della nuova giunta militare sono stati addestrati dal Comando Operazioni Speciali dell’Esercito degli Stati Uniti presso la Base Aerea 201 o a Fort Benning in Georgia – è parte del medesimo processo caratterizzato da eventi improvvisi dello scorso anno, accaduti nei confinanti Burkina Faso e Mali. Avvenimenti cadenzati da quel fattore X inaspettato: l’immediata mobilitazione popolare in piazza a sostegno del manipolo di militari che ha appena preso il potere senza sparare un colpo, l’assalto ai negozi, gli attacchi alle sedi diplomatiche Francesi e, come trasmesso anche dai media italiani, la piazza Nigerina pretende che tutte le forze militari occidentali – non solo quelle della Francia – lascino il paese, gridano contro Macron, assaltano l’edificio dell’Ambasciata di Francia sul quale issano la bandiera Russa.

Poco più di due anni e mezzo fa (Febbraio 2021), quando l’ambasciatore italiano Luca Attanasio nella Repubblica Popolare del Congo finiva ucciso durante una missione umanitaria, questo blog riprendeva un articolo di Michele Castaldo che sottolineava come intorno al rinnovato saccheggio del continente Africano da parte delle potenze Occidentali fosse calato un silenzio tombale [vedi qui]. Un silenzio tombale che è proseguito quando prendeva il via la più massiccia operazione militare congiunta di Francia e Italia proprio nel Sahel nel marzo 2021 [vedi qui]: Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad. Ossia l’accelerazione della guerra “informale” di rapina e di occupazione, portata avanti nella regione e in centro Africa da Francia, Italia e Stati Uniti innanzi tutto, in continuità con le aggressioni militari degli USA al tempo della presidenza Obama in Libia e Somalia, passava del tutto inosservata.

In controtendenza rispetto all’Occidente e alla stessa Cina, l’Africa è un continente in forte crescita demografica e con una accelerazione dei processi di urbanizzazione che segue una crescita di produttività e del PIL, che seppure disomogenea e rallentata rispetto a quella registrata nel decennio 2000-2010, conferma le potenzialità produttive di gran parte del continente. Una crescita trainata dalle tre principali economie Africane: Sud Africa, Egitto e Nigeria, che si fanno volano rispettivamente per le regioni del Corno D’Africa e dell’Etiopia, per l’area delle colonie ex Britanniche e Francesi nel West Africa e per parte del centro Africa (Congo e Kenya). Dunque una possibilità per la valorizzazione dei capitali dettata dalla crescita dei volumi della domanda di merci e macchinari in varie aree del continente Africano. Mentre in altre aree, alla liberazione Africana dal colonialismo imperialista è succeduta solamente la barbarie dei piani di ristrutturazione del debito e/o del credito imposti dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, che hanno aperto una dinamica sociale ed economica disgregativa, manifestando il fallimento drammatico dell’uscita reale dall’oppressione coloniale e dalla dominazione imperialista. Una ferita aperta il cui pus determinato è rappresentato dalle guerre etniche e dall’emergere di quelle consorterie economiche locali – rappresentati anche in parte dal Jihadismo subsahariano –  che non vanno oltre l’espressione di interessi capitalistici di tipo corporativo.  

Ed è in questa fascia più fragile rappresentata dai 5 stati del Sahel che Francia, Italia, EU e Stati Uniti avevano avviato la propria strategia tendente realizzare un cavallo di troia per la ripresa del controllo più ferreo del continente conteso dalla Cina: le missioni militari per combattere l’emergere delle formazioni Jihadiste. Gli obiettivi reali manco a dirlo sono essenzialmente tre:

le materie prime dell’Africa che abbondano anche nelle aree più depresse (metalli rari, uranio, petrolio – recentemente scoperto in Mali);

appropriarsi delle terre fertili del Centro Africa e della fascia subsahariana, trasformando la campagna della savana in un indotto agro intensivo per il rifornimento delle nuove centrali elettriche in progettazione basate sulle biomasse (agro-hub), che copriranno la crescita della domanda di energia elettrica che l’aumento della capacità produttività Africana richiede; una energia, dunque, “pulita” e “de-carbonizzata”, ma decisamente rapace, che comprometterà velocemente, ne siamo certi, la fertilità del suolo della savana Saheliana compromettendone per sempre la possibilità della coltivazione attraverso le sementi locali;

governare la nuova tratta degli schiavi Africani attraverso le rete delle ONG europee e italiane che proliferano nella regione del Sahel, e che trova uno snodo principale lungo la direttrice che attraversa Agadez nel centro del Niger e che collega la Nigeria e il West Africa con l’Algeria e la Libia attraversando il Niger e il Sahel.

In sostanza una presenza militare che diviene necessaria per vincere la concorrenza delle multinazionali della Cina, degli Emirati Arabi, Sauditi e dell’India che si sono affiancate all’Occidente nella nuova forma storica del colonialismo e del saccheggio Africano: il land grabbing. Un fenomeno in continua progressione dal 2008, dove rappresentanti di interessi locali o governanti messi su da potentati economici stranieri concedono in affitto migliaia di ettari a multinazionali straniere al costo medio di 2 Euro l’anno per ettaro di terreno, che per fare profitto sfruttano al massimo le risorse della terra. Già si stimava che nel 2016 fossero almeno 20 milioni gli ettari sottratti mediante esproprio alle popolazioni Africane locali attraverso circa 456 contratti di leasing dalla durata che può variare dai 70 ai 99 anni. La legge storica della produzione del valore non può che essere ineguale: le popolazioni in eccesso sono sfrattate dai nuovi padroni o sono costrette a lasciare le terre dove vivono perché trasformate in discariche dall’agrobusiness e migrano nei centri urbani; la produzione intensiva agricola è per l’esportazione per soddisfare il consumo alimentare dei paesi ricchi o per la produzione di massa di biocarburanti mentre regredisce l’autosufficienza alimentare dell’Africa e si compromette la fertilità del suolo, la biodiversità e l’ambiente.

Sicuramente le nazioni del Sahel sono tra le più economicamente fragili e quindi più esposte agli effetti della disgregazione sociale innescata dai devastanti piani di ristrutturazione del debito del FMI degli anni ’90. Al comando dei vari governi si sono succeduti sicuramente rappresentanti di consorterie economiche che non potevano che allinearsi all’offensiva neo coloniale in Africa e essere comprati con quattro spicci dall’Occidente, ma senza mai ottenere in cambio alcuna capacità materiale di porre freno alla decomposizione di quei tessuti unitari statuali risultati dal colonialismo e post colonialismo. Quanto a lungo poteva durare questa ridiscesa vero gli inferi per l’Africa subsahariana?

I fatti recenti dimostrano che i popoli del Sahel hanno iniziato ad annusare che il tutorato Occidentale nel combattere le formazioni Jihadiste è la medicina peggiore del male, è appunto quel cavallo di troia utile per la loro ri-sottomissione neo coloniale, che diviene sempre più urgente in quanto l’Africa rischia di sfuggire di mano all’Occidente stesso proprio a causa di una crisi generale del valore che lo espone alla concorrenza con l’Oriente, la Cina e ne evidenzia il declino.

Infatti, dopo nemmeno un anno dall’avvio coordinato Francia – Italia dell’operazione militare barkhane nel Sahel, dalla Guinea e soprattutto dal Mali e dal Burkina Faso è iniziata una rapida presa a pedate degli Europei, che si sta realizzando attraverso l’unico mezzo possibile stante le condizioni materiali di partenza e la nullità del movimento dei lavoratori in Occidente: un colpo di mano militare di qualche battaglione di fanteria, ma col sostegno diffuso e attivo di larghissimi strati delle popolazioni lavoratrici delle città e delle campagne, la cui miseria e sfruttamento combinata con le potenzialità della crescita produttiva dell’Africa sta precipitando un rinnovato sentimento crescente anti Francese e anti neo coloniale tout court.

A fine gennaio 2022 il governo militare del Mali espelle con preavviso di 72 ore l’ambasciatore Francese e poco dopo nel febbraio le truppe Francesi presenti fin dal 2013 senza soluzione di continuità sono costrette a lasciare il paese. Il tutto avviene con continue manifestazioni popolari anti francesi. Il 30 settembre 2022 un ignoto Capitano di una un battaglione di artiglieria dell’Esercito del Burkina Faso, il 34 enne Ibrahim Traoré, destituisce il presidente in carica e assume il potere nel nuovo Governo di Transizione, denuncia la presenza militare e gli interessi neo coloniali francesi in West Africa, rompe gli accordi bilaterali di collaborazione militare con la stessa, che si troverà infine costretta a ritirare le sue truppe definitivamente nel febbraio del 2023. E ora il Niger. In ognuno di questi momenti le strade si sono riempite di manifestanti e di sentimento anti-francese e di sostegno militante diffuso alle giunte militari salite al potere.

È questo il fatto straordinario di rilevanza storica: dal 1990-91 sono trascorsi solo 32 anni, meno dell’età del giovane comandante di cui sopra, e l’Occidente è in braghe di tela rispetto a Desert Storm, di quando seppe far accodare alle sue pretese sotto le bandiere dell’Onu e compiere quell’infame massacro in Iraq. I tempi sono drammaticamente cambiati e l’Occidente oltre a blaterare minacce sente mancare la terra sotto i piedi. Non solo non è più visto come il faro della civiltà e delle libertà, ma viene preso a calci nel sedere nel centro di quel continente che per secoli è stato trattato in modo schiavistico.

Il cadenzare degli eventi di una fascia importante dell’Africa che vede gli Europei occidentali ingolfarsi tra le dune del deserto e la foresta della savana, descrive una dinamica tutt’altro che “golpista” e di scontro tra gruppi di interessi economici corporativi per il potere. Dietro ogni momento emblematico di questa cacciata degli Europei dal Sahel c’è una materialità di una insopprimibile necessità che emerge dal profondo: la potenzialità di crescita della produttività in Africa e la crisi di un modo di produzione monista e della sua catena unitaria mondiale che indebolisce l’Occidente e mette l’Europa di fronte al suo canto del cigno. Questo sviluppo recente dell’Africa richiede macchinari per sviluppare la trasformazione delle sue ricche risorse e l’Occidente non li produce più di suo, perché per ovviare alla lunga crisi di valore ha dovuto delocalizzare le produzioni principali in Asia e in Cina, quindi le masse Africane per necessità sono sospinte a guardare verso l’Oriente e verso la Cina per sviluppare l’economia di mercato e sfamare le bocche. Le masse povere e lavoratrici, delle campagne e delle città hanno i telefonini ma hanno problemi di sussistenza, di protezione dalla disgregazione sociale come effetto del fallimento post coloniale e non vogliono essere espropriati dalle loro terre per dar luogo ai munifici progetti delle multinazionali straniere. Le nuove tecnologie usate per lo sviluppo delle reti mobili, internet e delle infrastrutture digitali, necessarie per la circolazione del valore e lo sviluppo del business all’interno della catena mondiale della produzione del valore, sono prevalentemente made in Cina e made in India, sono corporate quali Huawei e Tata Telecommunications che scalzano i colossi delle TLC multinazionali Europee, Britanniche e Nord Americane. Non è dunque un caso che anche gli interessi borghesi, finanche quelli più corporativi, siano attratti da un moto profondo a tradire gli alleati Occidentali per necessità. Gli Stati Uniti hanno investito più di 500 milioni di dollari dal 2012 in Niger per la cosiddetta “sicurezza”, poca cosa e insufficiente a fidelizzare a sé quel pugno di ufficiali dell’Esercito Nigerino ora trascinati nel vortice del moto ribelle Saheliano.

Molti paesi dell’Africa, in particolare il Sud Africa, avevano già fatto capire a chiare lettere di non avere alcuna intenzione di schierarsi con l’Occidente contro la Russia e rimanere neutrali nella guerra condotta in Ucraina (nei voti delle risoluzioni ONU e nell’infruttuosa missione Africana di Blinken la scorsa estate), perché la merce che l’Occidente produce, per via della crisi, si riduce a un logo o a uno slogan di marketing. D’altro canto l’Africa non ha mai conosciuto il colonialismo da parte Russa e le mobilitazioni popolari nel Sahel guardano ad essa con uno sguardo completamente diverso rispetto al secolo scorso.

Appare dunque chiaro che definire “colpo di Stato” la presa del potere dei militari in Mali, in Burkina Faso e in Niger, col sostegno popolare è tutt’altra cosa dai colpi di Stato diretti e organizzati dall’Occidente e chi avanza questa tesi lo fa per opportunismo eurocentrico accondiscendente all’imperialismo di casa propria. Che poi la favola democratica venga data da bere anche ai rimasugli della sinistra che fu, beh, pazienza, fessi erano prima e tali restano. Ci sono stati addirittura “fior di teorici” di sinistra, che definirono “Colpo di Stato” anche la rivoluzione russa del 1917. Viceversa, la straordinaria mobilitazione popolare sostiene le attuali giunte militari proprio perché hanno deposto dei presidenti “democraticamente” eletti, ovvero messi lì al potere da potentati economici Occidentali.

Stiamo assistendo a un ribollire generale dell’Africa, che non potrà consolidarsi nel solco del pan africanismo degli anni ’60, ossia nella prospettiva di sviluppare la produzione del valore e relazioni di scambio eque tra le nazioni Africane. Quella possibilità storica è stata definitivamente sconfitta ai tempi di Lumumba in una fase ascendente dell’accumulazione mondiale e del mercato, non può trovare spazio all’oggi quando la crisi mondiale inizia a mordere anche la Cina e l’Oriente. Il suo riemergere fuori dal tempo è l’altra faccia della crisi generale di un modo di produzione unitario, che indebolisce l’Occidente mentre si guarda riflesso attraverso lo specchio dei fatti Saheliani e si confronta con la propria debolezza e il proprio inesorabile declino. Se in questo riflesso materiale le masse lavoratrici dell’Africa e del Sahel guardano alla Russia, questo appunto avviene perché l’Occidente ha sempre meno la capacità di realizzare quel rapporto di scambio combinato e predatorio utile a legare pro domo propria gli interessi frammentati capitalistici Africani autoctoni.

E’ il processo della rivoluzione in marcia ancora dai connotati confusi – e non potrebbe essere altrimenti – che sta attraversando il Sahel e che rischia di contagiare il continente: un processo che origina da cause profonde e che inizia a determinare anche quelle personalità della storia che divengono riflesso agente della necessità di chiamare in causa il rapporto di un modo di produzione con le risorse della natura e le relazioni di scambio con gli altri popoli dal punto di vista delle necessità dello sviluppo dell’Africa e delle sue masse lavoratrici sfruttate. Il tutto non può che avvenire lungo il solco determinato dal passato storico e dalle condizioni materiali dell’oggi.

Pochi giorni fa Ibrahim Traoré, presidente del Burkina Faso, dalla platea del Summit Russia Africa di San Pietroburgo, rivolgendosi all’intero continente Africano, constata che “la mia generazione si pone mille e una domande. Ma non troviamo una risposta“. Come mai, si domanda il giovane neo presidente, il continente Africano, benché ricco di ogni ben di dio rimane il continente più povero e quello che soffre di più la fame? Perché i paesi del continente Africano non riescono a realizzare quella trasformazione in loco delle materie prime che l’Africa possiede, dimostrandosi incapaci di realizzare quelle relazioni solidali ed essere auto sufficienti e indipendenti dall’imperialismo? E’ un discorso breve di sette minuti, che già si sta diffondendo in Africa infiammando le nuove generazioni, perché ha chiamato in causa l’ininterrotta dominazione imperialista di gran parte del continente e la collusione con esso delle leadership degli Stati Africani:

«La mia generazione mi ha incaricati di dirvi che, per la povertà, sono costretti ad attraversare il mare per raggiungere l’Europa. Muore nel mare, ma presto non attraverserà più il mare ma verrà nei nostri palazzi in Africa per reclamare il loro sostentamento quotidiano… Il vero grande problema è vedere i nostri capi di stato africani, che non portano a nulla ai loro popoli in lotta, cantare la stessa musica degli imperialisti. I nostri capi di stato africani devono smetterla di comportarsi come marionette..»

A ben vedere il moto della ribellione contro l’occidente fa porre sul piatto il cuore della questione storica: l’imperialismo è riuscito a continuare il saccheggio dell’Africa, perché nella fase di continua espansione dell’accumulazione del valore gli ha consentito di comprare la formazione degli interessi economici emergenti locali, che hanno venduto le proprie risorse naturali e concesso lo sfruttamento delle materie prime dell’Africa. La crisi generale dell’accumulazione sta mettendo in crisi questa saldatura e gli sfruttati Africani guardano alla Russia non per il suo passato sovietico, ma alla Russia attuale che è posta nella condizione necessaria di essere anti occidentale per non retrocedere nello sviluppo capitalistico raggiunto anche essa a mera nazione produttrice di materie prime, e dunque come sostenitrice di un decisamente improbabile multipolarismo capitalistico.

Infatti, il presidente Putin è apparso palesemente a disagio di fronte alla netta denuncia pronunciata dal giovane leader Burkinabe nei confronti dei rappresentanti dei poteri economici e politici Africani verso cui la Russia si propone come polo attraente del multipolarismo capitalistico. Si tratta del ruolo impersonale cui è costretto a svolgere, perché la Russia ha necessità di esportare le materie prime che produce all’Africa per rafforzare la propria accumulazione di valore e da moderna nazione capitalistica è interessata agli affari.

In sostanza, se l’Europa e l’Occidente, dopo avere prosciugato per centinaia di anni un intero continente, per competere con la Cina nella contesa del saccheggio delle materie prime dell’Africa e dell’uso della forza lavoro africana a basso costo importata attraverso l’immigrazione, sono costretti a schierare le proprie forze militari per controbilanciare la penetrazione finanziaria della Cina (che da sola ha raggiunto una quota di investimenti che supera quella di Stati Uniti e Francia messi insieme), la Russia da moderna nazione capitalistica può solo far valere a proprio vantaggio la legge dello scambio diseguale tra paesi produttori di materie, che proprio dal land grabbing concesso all’Occidente e alla Cina dai compiacenti governi Africani è favorita. Basterebbe leggere le agende e i contenuti all’ordine del giorno discussi dai Summit o Forum bilaterali con i paesi Africani organizzati e voluti da Stati Uniti, Cina, Unione Europea e Russia per dedurre come le leggi di un modo di produzione mondiale monista e impersonale determinano le relazioni e i rapporti di dominio e forza differenti nei confronti dell’Africa da parte dei suddetti attori principali: i primi tre intorno allo sfruttamento delle terre, gli investimenti in grandi opere, il land grabbing e l’immigrazione; il quarto circa lo scambio delle rispettive produzioni di materie prime, con gli Stati “golpisti” anche a chiedere quegli aiuti militari che servono per proteggere l’integrità del mercato capitalistico locale per non esporsi all’occupazione militare occidentale.

Tant’è che il governo Russo già aveva preso le distanze dall’ultimo cosiddetto colpo di mano militare in Niger, pronunciandosi anche esso per la difesa dello stato di diritto e per il rispetto dell’ordine costituzionale, isolando sempre più il gruppo Wagner sempre meno libero – dopo il suo “ammutinamento” di qualche settimana fa – che per far valere i propri interessi corporativi e di “bottega”, gioca col fuoco del vortice della ribellione di una nuova generazione di africani contro il neo colonialismo. Mentre la Cina rimane silenziosa sperando in una rapida “normalizzazione” della situazione politica nell’intera area. [Nota 1]

I fatti di questi giorni, dunque, non possono che farci dire senza alcun timore viva la cacciata in atto di tutte le forze Occidentali dal Sahel come momento pratico della Rivoluzione in marcia. Non siamo certi che  i governi delle nazioni dell’ECOWAS del West Africa, allineati agli interessi vitali dei briganti ex colonialisti (di Francia e Gran Bretagna) e Occidentali saranno spinti a intervenire in Niger per interposta persona, se lo dovessero fare si tratterebbe di una nuova e ulteriore guerra di aggressione dell’Occidente contro l’intera Africa, per contenere il ribollire Africano e gli orizzonti della rivoluzione che iniziano a emerge confusi e caotici dal Burkina Faso, dal Mali e dal Niger. Con quali risvolti certi favorevoli per l’Occidente è piuttosto dubbio.

Il comunismo come necessità storica non potrà che emergere attraverso  le pieghe del caos generale di una crisi inarrestabile: il risveglio della ribellione del continente Africano all’ordine combinato e diseguale del capitalismo mondiale è già di per sé un momento decisivo di questo processo rivoluzionario, che si dà ad ondate discontinue e diviene un incubo per i sostenitori del modo di produzione capitalistico e che farà bruciare le mani anche agli apprendisti stregoni.


Nota [1]

La storia ha un linguaggio parlato e uno “muto”, ovvero di quel che non viene detto per motivazioni profonde: ci vogliamo riferire al silenzio sulla Cina da parte delle popolazioni del Sahel contrariamente alle simpatie verso la Russia di Putin. I paesi africani stanno pagando in questa fase anche lo scotto del saccheggio operato da parte dell’invadenza della Cina con i suoi tassi di sviluppo degli ultimi 40 anni. Tant’è che la Cina negli ultimi anni sta realizzando diversi accordi bilaterali con vari paesi Africani per importare mano d’opera a basso costo per la grande  manifattura Cinese e quindi ridurre il valore del salario medio cinese. Al tempo stesso l’Africa negli ultimi decenni assiste ad una immigrazione Cinese contraria fatta di imprenditori, commercianti e operai legata ai progetti infrastrutturali necessari per lo scopo dichiarato di delocalizzare parte delle lavorazioni cinesi proprio in Est Africa. A Luanda, molti lavoratori Angolani ritengono che gli operai Cinesi siano costretti ai lavori forzati, ma nonostante questo vedono il realizzarsi dei lavori a tempo di record, tra cui il rifacimento completo delle linee ferroviarie. In poco tempo, operai africani e operai importati dalla Cina rinnovano completamente le linee ferroviarie che collegano tra loro i vari porti dell’Africa orientale, linee che ancora risalgono ai tempi del colonialismo e di inizio XX secolo. Tutto questo genera quel “fascino tutto proprio” dello sviluppo parossistico dell’industrialismo. E i giovani dell’Africa dell’Est guardano ai Cinesi come “sfruttatori”, “truffatori”, ma “comunque meglio degli Europei che hanno solo combinato disastri”.

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