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La crisi greca, ovvero il biopotere dei mercati finanziari

Circa un anno fa, il ministro Tremonti era impegnato in una frenetica attività  per garantire la solidità dei conti pubblici italiani e tranquillizzare i mercati finanziari. Due erano le ragioni che venivano adottate dal commercialista per dichiarare che mai l’Italia avrebbe potuto fare la fine della Grecia e dell’Irlanda: la solidità delle nostro sistema bancario, che solo tangenzialmente era stato toccato dalla crisi finanziaria, e il fatto che i conti pubblici erano sotto totale controllo grazie alle manovre di contenimento promulgate dal governo (?).

Oggi la situazione si presenta alquanto diversa.

Moody’s in questi giorni ha declassato a spazzatura (junk) i titoli di stato portoghesi. Si sta ripetendo la”farsa” della Grecia. Nell’ultimo anno, come è noto, la Grecia ha adottato obtorto collo, dietro imposizione della troika: FMI, BCE, ECOFIN, misure draconiane di riduzione del deficit pubblico, già a partire dalla seconda metà del 2010: riduzione del 15% degli stipendi pubblici, blocco delle assunzioni, aumento dell’imposizione fiscale, in particolare dell’Iva, programma di privatizzazioni senza precedenti per un valore di circa 50 miliardi di euro.  Il risultato è al momento il seguente: secondo i dati Eurostat, resi noti nell’aprile scorso, a fine 2010, il rapporto deficit pubblico/Pil è aumentato sino al 10,5%, rispetto al valore di 9,4% previsto dal governo greco sulla base della manovra effettuata (contro il 32% dell’Irlanda, il 10,4 del Regno Unito, il 9,2% della Spagna e del Portogallo, il 7% della Francia). Al contempo, il rapporto debito pubblico / Pil (dove per debito pubblico si intende la sommatoria di tutti i deficit maturati anno dopo anno) ha superato il 140%. Sulla base di questo esito, in questo mese si è ripetuto  lo stesso stantio dibattito di un anno fa: vale la pena intervenire per salvare la Grecia dal default? Ma, a un anno di distanza, la giusta domanda da porsi dovrebbe essere la seguente: perché le misure draconiane adottate in Grecia (e che si sono adottate in Spagna, Irlanda, Portogallo e si vuole adottare in Italia) non hanno prodotto i risultati attesi?

La domanda è puramente retorica, perché la risposta è, tutto sommato, banale.

Il deficit pubblico è costituito da due componenti: il disavanzo o avanzo primario, pari alla differenza tra il totale delle spese e il totale delle entrate dello Stato (al netto degli interessi) e le spese per interessi sui titoli di stato emessi negli anni precedenti e derivanti dalla rinegoziazione dei titoli venuti a scadenza nell’anno. Le leggi finanziarie possono intervenire solo sull’avanzo o del disavanzo primario, non sulle spese per interessi.  In seguito all’adozione di misure draconiane, si può creare anche un avanzo primario (come, ad esempio, è successo in Italia a metà degli anni ‘90, dopo le finanziarie lacrime e sangue del 1992, 1993 e 1994 e l’ondata di privatizzazione di metà anni ’90), ma se in contemporanea aumenta l’onere del debito e quindi la spesa per interesse lo sforzo per ridurre il deficit di bilancio può essere del tutto vanificato. Ed è proprio questo ciò che è successo e sta succedendo in Grecia. Al momento attuale, in seguito ai vari declassamenti che le agenzie di rating hanno inflitto ai titoli di stato greci (e oggi a quelli portoghesi), sino a definirli titoli spazzatura,  il divario (spread) con i bond tedeschi (quelli considerati più affidabili)  è pari a quasi 700 punti, il che significa che l’interesse che lo Stato greco deve promettere per la vendita dei titoli di stato e la loro rinegoziazione è circa 7 volte superiore, oltre il 10% annuo. A tale aggravio dei costi, si deve aggiungere che il mercato “future” dei titoli di stato greci, contrattati sul secondo mercato di Londra, evidenzia valori di scambio  decisamente più bassi rispetto al valore nominale, con il conseguente rischio di imporre perdite molto rilevanti ai detentori dei titoli: in buona parte, banche greche, francesi e  tedesche e la stessa BCE. Di fatto, al di là delle validità e affidabilità o meno delle manovre draconiane, l’ultima parola spetta sempre, come si confà al moderno capitalismo, ai mercati finanziari.

In secondo luogo, occorre ricordare che ogni politica fiscale restrittiva ha come conseguenza immediata la contrazione del Pil. E’ cosi possibile che l’effetto negativo di tali cure sul Pil sia maggiore dell’effetto positivo di riduzione del deficit, con il risultato che l’obiettivo di ridurre il rapporto deficit/Pil non possa mai venir conseguito. E’ il classico caso in cui la cura è talmente forte da ammazzare il paziente, utilizzando una nota metafora di Keynes. Tale rischio è tanto più forte tanto più la politica fiscale restrittiva avviene all’indomani di una fase recessiva così pesante come quella del 2009, che ha visto in Grecia (al pari dell’Italia) una caduta del Pil di oltre il 5% e valori, non a caso, ancora negativi nel 2010.

Non è necessario essere esperti di economia per capire che difficilmente le manovre di politica economica imposte alla Grecia potranno avere successo. Al contrario, il rischio è che la situazione si avviti in una spirale viziosa senza uscita con la necessità ogni anno di adottare politiche fiscali ancor più recessive.

E’ chiaro quindi che la salvezza della Grecia dal default non è il vero obiettivo che la troika economica mondiale ed europea, sotto l’egida dei mercati finanziari, si prefigge.  In realtà, gli obiettivi sono ben altri e non sempre convergenti: dal punto di vista europeo, è prioritario garantire l’esigibilità di quella parte del debito greco detenuto dalle banche europee, così come è stato fatto nel caso irlandese e islandese. Tale obiettivo però vede confrontarsi diverse strategie: da un lato, la Francia, con il piano Sarkozy, punta ad un allungamento delle scadenze del debito, tramite l’immissione di titoli di garanzia (una sorta di “”derivati sovrani”, controllati dalla BCE), con il duplice scopo di allontanare il rischio di default della Grecia (sperando in un abbassamento dei tassi d’interessi) e di dare linfa al mercato finanziario europeo con l’estensione del mercato dei titoli sovrani. Dall’altro, la Germania si dimostra più restia ad lanciare cinture di salvataggio alla Grecia, anche a rischio di creare effetti negativi sul mercato creditizio tedesco (vista l’elevata esposizione delle banche tedesche), pur di evitare di avere sulle spalle l’onere principale del risanamento in seguito all’utilizzo del fondo europeo di salvataggio (a cui la Germania, per la sua posizione, è chiamata a contribuire in modo elevato). Come abbiamo avuto modo di scrivere già in altre occasione, si sconta la mancata esistenza di una politica fiscale unica europea e quindi l’incompletezza della costruzione europea.

Dal lato dei mercati finanziari, l’instabilità generata dall’incertezza presente non è altro che manna dal cielo. La variabilità che ne consegue, infatti, favorisce l’attività speculativa delle principali società di intermediazione finanziaria, in grado di influenza le dinamiche e le traiettorie finanziarie spesso a scapito dei piccoli risparmiatori. Si conferma quanto ipotizzato anni fa. La finanza diventa sempre più strumento di biopotere sulla vita degli uomini e delle donne di questo continente, dal momento che è in grado di imporre le scelte economiche che ritiene più vantaggiose per sé, anche se nella realtà producono una “macelleria sociale”. Di fatto ciò che avveniva con i famigerati Piani di Aggiustamento Strutturale (Sap) imposti dal FMI ai paesi africani negli anni ’90 si sta verificando con forme diverse ma uguale sostanza ai paesi europei di oggi.

Recupero dei crediti e conferma del biopotere  dei mercati finanziari sulla vita umana come fonte di valorizzazione capitalistica: ecco i le vere ragioni dell’imposizione di politiche economiche suicide alla Grecia.

In Italia la situazione non è migliore. E’ vero che, a differenza della Grecia e della Spagna, il rapporto deficit/pil nel 2010 è diminuito dal 5,4% al 4,6% (fonte: Eurostat), ma nel primo trimestre 2011 è risalito al 7,7% (fonte: Istat) e il rapporto debito/Pil negli anni della crisi (2008-2010) è salito dal 106% al 119% (secondo solo alla Grecia). Il motivo è, anche qui, dovuto al rialzo dello spread tra i i titoli pubblici italiani e tedeschi, che ora si attesta sui circa 200 punti (ovvero il doppio). In secondo luogo, il sistema bancario non è così solido come Tremonti vuol far credere. La recente ispezione della Banca d’Italia alla Banca Popolare di Milano (BPM) ha evidenziato irregolarità contabili sulla base di operazioni di credito di dubbia efficacia e trasparenza . Allo stesso tempo, il peso crescente nelle fondazioni bancarie (le vere proprietarie del sistema creditizio italiano) di banche locali dell’area settentrionale, tutte strettamente sotto il controllo politico della Lega Nord (basti pensare al defenestramento di Profumo dall’Unicredit), con apparente alta disponibilità di liquidità ma ridottissimi limiti di azione, oltre a rappresentare un costo eccessivo per il sistema economico italiano, impedisce quel processo di innovazione manageriale in grado di renderle più impermeabili alla collusione politico-mafiosa e alla concorrenza internazionale.

Ne consegue che ciò sta succedendo alla Grecia oggi ed è accaduto già un anno fa, che oggi si sta verificando per il Portogallo, potrebbe ripetersi in altri paesi europei, in primo luogo in quelli della fascia periferica (Irlanda, Spagna), già costretti a pesanti misure recessive. Il rischio è che anche per l’Italia sia solo questione di tempo.

DI fronte a tale soluzione, non vi sono scappatoie riformiste.  O meglio, se vi è spazio per una politica riformista questa è del tutto inutile, in quanto interna alle compatibilità poste dai mercati finanziari e dalle istituzioni economiche e politiche che li rappresentano o che vi soggiacciono: si tratta in altre parole di decidere quale spesa sociale  tagliare. Già una proposta di Finanziaria alternativa come quella resa nota dal network Sbilanciamoci, del tutto compatibile con gli obiettivi (comunque  utopistici) di azzerare il rapporto deficit/pil nel 2014, potrebbe essere considerata “politicamente” inaccettabile se punta ad esempio ad una riduzione delle spese militari o delle grandi opere a vantaggio di spese sociali di base, da finanziare con interventi sul lato fiscale che incrementino le tasse per le fasce più abbienti e magari introducano tasse di tipo patrimoniale.

Oggi la politica fiscale e i vincoli europei posti dal patto di stabilità europeo sono i grimaldelli per mantenere inalterato l’attuale assetto gerarchico sul piano sociale ed economico: nulla più. Ed è quindi a questo livello che deve essere pensata una risposta adeguata. E tale risposta non può che partire da un primo punto fermo: il diritto alla bancarotta degli stati europei da coniugare con la ripresa di un movimento transnazionale europeo che ponga al primo punto la costruzione di un budget fiscale europeo unico, una politica fiscale e di spesa pubblica che travalichi i confini nazionali. I principali punti di una simile strategia programmatica possono essere i seguenti:

  1. a. Allungamento della scadenza medio del debito pubblico;
  2. b. Costituzione di un fondo di garanzia europeo finanziato prevalentemente dalla Banca Centrale Europea
  3. c. Aumento progressivo del contributo di ogni stato europeo (ora all’1% del Pil) per costituire un budget gestito a livello europeo in grado di favorire una politica sociale comune;
  4. d. L’avvio di piano europeo per la definizione di una politica fiscale comune.

Tali punti rappresentano solo un programma minimo per consentire il passaggio della sovranità fiscale dal livello nazionale e quello europeo e consentire, in tal modo, di porre un contropotere al potere monetario e finanziario oggi dominante. Ma per raggiungere tali obiettivi è necessario che si sviluppino movimenti sociali fra loro coordinati in grado di incidere nello spazio pubblico e comune europeo. Dai sommovimenti ancora nazionali finalizzati a estendere il diritto all’insolvenza  è ora di passare, tramite le reti studentesche, dei migranti, dei precari, delle donne, degli “indignati”, al diritto alla bancarotta su scala europea. Perché il diritto alla bancarotta significa ipotizzare che la moneta è un bene comune.

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