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L’economia solidale e l’autorganizzazione come risposta dal basso alla crisi

Nel dicembre 2001, dopo venticinque anni di indebitamento e di corruzione, l’Argentina crollò.

Era stata annunciata la sospensione della convertibilità alla pari peso-dollaro, e per evitare che i risparmiatori svuotassero i propri conti correnti vennero congelati i depositi bancari, mentre i grandi capitali erano già tutti al sicuro all’estero. La rabbia esplose: banche assaltate, supermercati saccheggiati, duri scontri con morti e decine di feriti.

Il 20 dicembre il il presidente De La Rua decretò lo stato d’assedio, ma fu costretto alle dimissioni.

Fu la fine di quell’inesistente “miracolo argentino” di cui per tutti gli anni ’90 avevano parlato i media di tutto il mondo.

Durante la dittatura militare il debito estero era passato da 8 a 45 miliardi di dollari e l’inflazione era arrivata al 4000%. I governi successivi per ottenere nuovi prestiti e attirare capitali stranieri nel Paese seguirono disciplinatamente i dettami del Fondo Monetario Internazionale.

Ci fu una gigantesca ondata di privatizzazioni: telecomunicazioni, gas, petrolio, aerolinee…

Si andava avanti a tagli della spesa pubblica nel tentativo di “riconquistare la fiducia dei mercati”.

Molte industrie chiusero e si diffusero i lavori “spazzatura”, precari e malpagati. Molti aprirono chioschi, alimentari, botteghe di gommisti e microimprese.

Nel 1993 viveva sotto la soglia della povertà il 17,8% degli argentini. Alla fine del 2001 si arrivò al 35,4% e nell’ottobre 2002 al 57,5%. La disoccupazione raggiunse il 21,5%.

Anche impiegati e professionisti furono ridotti in miseria. La gente raccoglieva cartoni per le strade.

La classe dirigente era ormai totalmente screditata e nelle piazze risuonava il famoso slogan “Que se vayan todos”.

Per sopravvivere alla crisi fu necessario autoorganizzarsi: molte imprese fallite furono occupate e autogestite, e si svilupparono i club di trueque (baratto), che nel 2002 videro la partecipazione diretta di 2 milioni e mezzo di persone. Considerando anche le famiglie, si può dire che più di un quinto della popolazione argentina poté soddisfare una parte delle sue necessità tramite questi interscambi di beni o servizi, mediati da una moneta sociale (1).

I club si organizzarono in reti regionali o nazionali. Le più grandi furono la Red Global de Trueque (RGT) e poi la Red de Trueque Solidario (RTS). Erano queste reti ad emettere i buoni.

Con il trueque entrano in circolo beni esclusi dal mercato ufficiale, come alimenti e indumenti autoprodotti, oppure prestazioni professionali inutilizzate perché troppo care, come quelle di medici o avvocati, che ritrovano i loro clienti e possono continuare a lavorare.

Fino al 2002 infatti vi fu anche un’offerta di prestazioni sanitarie: medici generici, dermatologi, ginecologi o anche dentisti e psicologi. C’erano laboratori, terapisti ed infermieri. Il lavoro si pagava in crediti, mentre i costi per materiali in pesos.

C’era perfino la possibilità di andare in vacanza pagando fino al 50% in crediti o facendo trueque diretto. Aderivano vari hotel delle regioni turistiche non solo argentine ma anche del Brasile e dell’Uruguay.

Tramite il trueque vennero salvate molte imprese, come la Lourdes, nella provincia di Mendoza, che lavorava polpa di pomodoro, sottaceti e dolci. Aveva qualche centinaio di dipendenti, ma con la crisi aveva chiuso. I produttori, che ormai non raccoglievano più i prodotti per mancanza di compratori, accettarono di pagare i loro raccoglitori in crediti. I lavoratori raccolsero ed avevano una forma di reddito, mentre l’impresa riceveva la sua materia prima. Le ciliege venivano vendute a Buenos Aires in pesos. Con questi soldi fu possibile far riprendere la produzione dell’impresa.

I limiti del trueque e della moneta sociale sono diversi: il primo è che per produrre è inevitabile l’acquisto di beni e materiali in moneta ufficiale, per cui il sistema rimane parzialmente dipendente dall’economia formale.

Inoltre è necessario che sia disponibile la massima varietà di beni e prestazioni, altrimenti si corre il rischio di non poter spendere i crediti acquisiti. Ma eccessive dimensioni dei club portano anche a un allentamento dei rapporti di fiducia.

Basti dire che nel periodo della massima espansione si arrivò a fenomeni di falsificazione dei buoni e addirittura a un’inflazione del 500%.

Tutto queste difficoltà permettono solo l’investimento e la produzione su piccola scala e non si arriva mai a rappresentare un’alternativa generalizzata all’economia regolare.

Ma questo non è neanche l’obiettivo principale. Il trueque vuol essere invece un salvagente per la popolazione colpita gravemente dalla crisi, una piattaforma nella quale gli aderenti possano soddisfare i loro bisogni più impellenti tramite l’interscambio reciproco, creando una rete di protezione sociale che eviti forme di isolamento e disperazione e ponga le basi per un’alternativa politica.

(1) Sul trueque cfr. l’articolo di Barbara Rossmeissl www.eumed.net/cursecon/ecolat/ar/2005/br-trueque.htm, di cui possiamo fornire la traduzione a chi è interessato

di Nello Gradirà, tratto da Senza Soste n.66 (dicembre 2011)

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