Obama, giù le mani dalle nostre rivoluzioni!
Aver buttato giu Rais e lottare per smantellarne i regimi è nella prospettiva dei rivoltosi una lotta anche contro i regimi liberl-democratici occidentali e le cricche che li rappresentano e governano, considerati primi artefici delle sofferenze e delle atrocità subite a causa dei proprio vassalli arabi. Gli entusiasti della rivoluzione del gelsomino, i cooperanti colorati e arancioni, gli attivisti polacchi avranno un bel da fare per imporre le linee di credito con cui gli Usa e l’Unione Europea vogliono tornare a strozzare il proletariato arabo, cercando di consolidare i processi di normalizzazione e neutralizzazione delle istanze di trasformazione in atto un pò ovunque nella sponda sud del mediterraneo.
Obama, giù le mani dalle nostre rivoluzioni!
La prima ondata delle rivoluzioni arabe sta entrando nella seconda fase, che riguarda lo smantellamento delle strutture del potere autoritario e l’inizio del difficile cammino verso il vero cambiamento e la democrazia. Gli Stati Uniti, inizialmente spaesati per la perdita dei loro alleati chiave nella regione, sono ora determinati a dettare il corso e il risultato di queste rivoluzioni in atto.
Ciò che ha rappresentato una sfida al potere americano è ora un’ “opportunità storica”, come l’ha definita Barack Obama nel suo discorso sul Medio Oriente la scorsa settimana. Tuttavia egli non intende con ciò un’opportunità per i popoli che si sono sollevati, quanto piuttosto per Washington, nel tentativo di modellare il presente e il futuro della regione, proprio come è avvenuto con il suo passato. Quando Obama parla del proprio desiderio di “rendere il mondo come dovrebbe essere”, non si riferisce alle aspirazioni delle persone, bensì agli interessi americani.
E come dovrebbe essere questo mondo? Il modello è quello dell’Europa dell’Est e delle rivoluzioni colorate. Il soft power e l’abilità diplomatica americani devono essere utilizzati per riconfigurare il panorama socio-politico nella regione. Lo scopo è quello di trasformare le rivoluzioni popolari in rivoluzioni americane creando un nuovo gruppo di elite docili, addomesticate e amiche degli Stati Uniti. Ciò richiede non solo la cooptazione dei vecchi amici del periodo pre-rivoluzionario ma anche il tentativo di contenere le nuove forze prodotte dalla rivoluzione, a lungo marginalizzate dagli Stati Uniti.
Come ha affermato Obama la scorsa settimana: “Dobbiamo sostenere le persone che rappresentano il futuro, soprattutto le giovani generazioni, fornendo assistenza alla società civile, inclusa quella che potrebbe essere non ufficialmente riconosciuta”. Per fare ciò egli ha raddoppiato il budget per la “protezione dei gruppi della società civile” da 1,5 milioni di dollari a 3,4 milioni.
I destinatari non sono soltanto i soliti elementi neoliberali, ma anche gli attivisti che hanno guidato i movimenti di protesta, oltre agli Islamisti tradizionali. I programmi destinati ai giovani leader includono il progetto ‘Leaders for Democracy’ sponsorizzato dalla ‘Middle East Partnership Initiative’ del dipartimento di Stato americano. Alcuni attivisti arabi, compreso l’attivista egiziano per la democrazia e i diritti umani Esraa Abdel Fattah, sono stati invitati a un evento organizzato dal ‘Project on Middle East Democracy’ che si è tenuto a Washington lo scorso mese (uno dei numerosi seminari e conferenze recenti). Sempre lo scorso mese al Cairo si sono tenuti gli incontri tra alcuni alti funzionari americani, come il leader della maggioranza alla Camera, Steny Hoyer, e i Fratelli Musulmani, mentre il numero due del partito islamista tunisino Ennahda è tornato da poco da una visita a Washington dove si è recato “per discutere della
transizione democratica”.
Washington spera di distogliere queste forze emergenti dalla propria opposizione ideologica nei confronti dell’egemonia americana e di trasformarle in attori pragmatici, completamente integrati all’interno dell’ordine internazionale esistente guidato dagli Stati Uniti. Le loro posizioni non rappresentano un problema, fintanto che gli attori accettano di operare all’interno dei parametri che vengono delineati per loro, e di lottare per il potere senza mettere in discussione le regole del gioco. Bisognerà vedere, tuttavia, se in cambio dei favori americani essi non rischieranno di perdere il sostegno della propria base popolare.
Il contenimento e l’integrazione non avvengono soltanto sul piano politico, ma anche su quello economico attraverso il libero mercato e gli accordi commerciali nel nome delle riforme economiche. I piani “per stabilizzare e modernizzare” le economie tunisine ed egiziane, che sono già stati stesi dalla Banca Mondiale, dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Europea per lo Sviluppo su ordine di Washington, verranno presentati al vertice del G8 di questa settimana [26-27 maggio (N.d.T.)]. È stato annunciato un fondo di 2 miliardi di dollari per sostenere gli investimenti privati, una delle tante iniziative “basate sui fondi che hanno sostenuto le transizioni nell’Europa dell’Est”.
Come sempre gli investimenti e gli aiuti sono condizionati all’adozione del modello americano nel nome delle liberalizzazioni e delle riforme, e all’esigenza di vincolare sempre più le economie della regione ai mercati americani ed europei nel nome dell’“integrazione del mercato”. Ci si chiede che cosa rimarrà delle rivoluzioni arabe in società civili che sono così infiltrate, caratterizzate da partiti politici addomesticati e da economie dipendenti.
Tuttavia, sebbene l’amministrazione Obama potrà avere successo con alcune organizzazioni arabe, il suo tentativo di replicare ciò che è avvenuto nell’Europa dell’Est potrebbe essere destinato al fallimento. Praga e Varsavia guardavano agli Stati Uniti quale fonte d’ispirazione, mentre per la gente del Cairo, di Tunisi e di Sana’a gli Stati Uniti rappresentano l’equivalente dell’Unione Sovietica nell’Europa orientale: essi sono il problema e non la soluzione. Per gli arabi gli Stati Uniti sono una forza di occupazione che agisce sotto le mentite spoglie della democrazia e dei diritti umani.
Nessuno più dello stesso Obama avrebbe potuto offrire una prova eloquente di tutto ciò. Egli ha iniziato il suo discorso sul Medio Oriente con un elogio della libertà e dell’uguaglianza di tutti gli uomini e le donne, e ha concluso parlando dell’“carattere ebraico d’Israele”, che di fatto nega i diritti di cittadinanza al 20% dei propri abitanti arabi, e il diritto al ritorno di 6 milioni di rifugiati palestinesi. Il tentativo degli Stati Uniti di conciliare l’inconciliabile – e cioè di parlare di democrazia e agire da potenza occupante o di venire in aiuto all’occupazione – è vano.
Soumaya Ghannoushi è una giornalista freelance; è ricercatrice alla School of Oriental and African Studies (SOAS) dell’Università di Londra.
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