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#RevoltJo! La protesta in Giordania diventa esplosiva

 

Dopo l’annuncio martedì del primo ministro Abdullah Ensour di consistenti tagli ai prezzi sussidiati di gas e carburanti – per assicurarsi un prestito di 2 miliardi di dollari da parte dell’FMI e così coprire parte di un deficit di bilancio in espansione – migliaia di persone si sono riversate nelle strade della capitale Amman e delle altre principali città del paese urlando la propria rabbia contro le istituzioni. Obiettivi: Ensour stesso, le corrotte agenzie di intelligence (l’ex-capo dei servizi segreti era stato propagandisticamente condannato per peculato nei giorni passati) e per la prima volta anche il re in persona (secondo la legge giordana l’insultare il monarca hashemita comporta il carcere da uno a tre anni), contestato dalla piazza e persino tra la sua base di potere dei beduini del sud. Eloquenti gli slogan: “il popolo vuole la caduta del regime”, “rivoluzione, rivoluzione è una rivoluzione popolare”.

 

Si sono quindi moltiplicati gli appelli in strada e su Twitter (su cui persino hashtag mossi da finalità radicalmente diverse, come #RevoltJo e #ReformJo, venivano accomunati dalla spinta verso il cambiamento) allo sciopero generale per il 14 novembre. Appelli recepiti da amplissimi segmenti sociali: dagli insegnanti della scuola pubblica ai tassisti, dagli studenti dell’Università della Giordania a semplici operai e cittadini infuriati, in un mercoledì di moti che non hanno risparmiato nessuno dei 12 governatorati del regno.

 

Il concentramento più grosso ad Amman è avvenuto nella piazza di Dakhliyyeh 13-14, davanti alla sede del ministero dell’interno, duramente represso con lacrimogeni e idranti da parte del Darak, la gendarmeria del regime. Da Irbid la notizia della morte di un ragazzo di 22 anni, Qais Al-Omari, mentre veniva assaltata una caserma della polizia si è diffusa per tutto il paese: a fuoco una stazione di rifornimento, così come i tribunali di Karak e Mazar, quest’ultimo dopo il saccheggio degli archivi. Nella città di Salt un centinaio di manifestanti diretti verso la casa del primo ministro per reclamarne le dimissioni si sono scontrati con gli agenti accorsi per difenderla a colpi di pietre da una parte e lacrimogeni e pallottole di gomma dall’altra. A Ramtha e nel governatorato di Mafraq, ai confini settentrionali del paese, la popolazione ha bloccato le autostrade ergendo barricate di copertoni e dando loro fuoco. A Maan, teatro anni fa di duri scontri di piazza, è stato dato l’assalto ai mercati e sono stati segnalati spari contro la polizia.

 

Scontri anche ieri tra manifestanti e forze dell’ordine nel campo profughi palestinese di Beqaa, mentre la polizia ha sparato in aria per disperdere i convenuti al palazzo reale di Raghadan, per chiedere la liberazione degli oltre 280 arrestati.

 

E con le proteste che entrano nel loro quarto giorno, ancora nel silenzio delle autorità politiche, l’esito del confronto non appare né lineare, né scontato. Oltre al proprio apparato repressivo, a fronte degli insorti il regime può contare su reti clientelari costruite negli anni, sull’ambigua opposizione del Fronte Islamico di Azione (la branca politica locale dei Fratelli Musulmani) già distanziatosi dalle proteste più dure, e sul sostegno del GCC, l’organismo di cooperazione delle monarchie reazionarie del Golfo (al cui interno però, con la crisi politica e le proteste popolari in Kuwait ed il dispiegamento di paramilitari in Bahrain per arginare i focolai di rivolta nei sobborghi, non mancano le tensioni). La piega che prenderà la piazza di Amman, già gremita di migliaia di persone all’uscita dalla moschea di Re Hussein dopo la preghiera di oggi, sarà così un’importante cartina di tornasole del futuro di un paese in bilico, al suo interno e nella regione.

 

 

 

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