Scontri a Tel Aviv, i Falasha contro l’apartheid israeliana
A scendere di nuovo in strada i Falasha, gli ebrei etiopi, che dopo le manifestazioni e gli scontri del primo maggio scorso a Gerusalemme, hanno tentato di entrare nel palazzo del municipio.
“Il nostro sangue è buono solo per le guerre”, questo lo slogan della manifestazione, per denunciare l’aggressione fisica e violenta da parte della polizia ad un giovane soldato etiope, episodio recente di una lunga serie di atti violenti e discriminatori ma fortunatamente ripreso e messo in rete.
Un corteo, il loro, partecipato anche da numerosi attivisti anti-razzisti non di origine etiope, che partendo dagli uffici governativi sotto le Torri Azrieli ha attraversato la città fino a raggiungere piazza Rabin.
Durissima la gestione della piazza da parte della polizia israeliana che ha caricato più volte il corteo, con agenti a cavallo e in assetto antisommossa, facendo diverse decine di arresti (per ora si parla di 46 persone fermate). La piazza ha risposto con lanci di pietre, bottiglie e uso di bastoni.
Non sorprende che i Falasha siano scesi in piazza, da anni la discriminazione che loro, come molte altre minoranze del paese vivono, è fortemente sentita.
I Falasha sono stati relegati dalla società israeliana al gradino più basso della scala sociale, vengono considerati cittadini di serie B e il loro processo di “ebraizzazione” consiste in un rigido inquadramento nelle scuole e poi nell’arruolamento nelle forze armate.
Ma chi sono esattamente i Falasha?
Dagli anni ottanta in poi il governo israeliano mise a punto un piano per trasferire in massa questa piccola comunità dell’Etiopia che viveva in una società a maggioranza cristiana e per il resto musulmana, denunciando numerose persecuzioni e discriminazioni.
Con la giustificazione che i Falasha fossero una delle antiche tribù perdute di Israele, dall’ ’85 le operazioni denominate Mosè, Giosuè e Salomone (ponti aerei) ne trasferirono decine di migliaia in Israele, dopo aver vissuto per oltre 2000 anni in Etiopia.
Se per la comunità internazionale quest’operazione fu fatta esclusivamente per ragioni “umanitarie”, non è mai stato un segreto che la volontà del governo sionista fosse quella di contrastare, con una massiccia immigrazione, la crescita demografica araba.
Esiste infatti oggi una Law of Entry che permette agli Etiopi di diventare cittadini israeliani purché una volta entrati abbraccino la religione ebraica.
Come è ben immaginabile, le speranze degli immigrati furono presto deluse, poiché poca attenzione venne rivolta dal governo all’impatto culturale di chi, provenendo da una società tribale e basata sull’agricoltura, si ritrovasse catapultato in un’altra società, molto tecnologizzata ed identitaria.
Molti Etiopi fecero, di fatto, il loro ingresso in Israele analfabeti, per questo chi era in età adulta, e quindi non scolarizzabile, si è ritrovò (e si ritrova) a dover svolgere lavori faticosi ed umilianti, senza possibilità di riscatto sociale.
Gli aspetti di questa immigrazione sono molteplici e complessi, ma non sorprende che oggi siano proprio i Falasha, che negli anni si sono conquistati delle cariche istituzionali e che oggi vedono in piazza la protesta guidata dagli studenti universitari, a protestare contro le politiche razziste all’interno dello stato sionista di Israele e a denunciare un’apartheid che, a quanto pare, Israele non riserva solo alle popolazioni confinanti, ma anche alle sue minoranze interne.
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