Il sonno della ragione genera mostri
Negli ultimi cinque lustri abbiamo non solo assistito ma, attivamente e convintamente, partecipato ad una stagione assai complessa fatta di mobilitazioni e contraddistinta da profondi cambiamenti sociopolitici.
Dalla fine degli anni cosiddetti di piombo e la relativa calma politica degli anni ‘80, la costellazione della sinistra antagonista è giunta agli anni ‘90 perdendo per strada non solo coesione e chiarezza di idee ma, in taluni contesti, sbarazzandosi anche della struttura teorica che sosteneva l’agire politico e ne delineava gli scopi. Il 1989 appare al mondo come uno spartiacque, un evento epocale, un punto di accumulazione della storia, uno di quei momenti che stabiliscono un prima e un dopo. Per alcuni sicuramente lo è stato. Liberarsi di un fardello come la DDR non è cosa da poco, ma non si può ridurre il tutto a questo avvenimento.
Probabilmente già in quel momento, ad un decennio dalla fine della stagione più attiva del conflitto politico in Italia e in Europa, si faceva strada il tarlo che avrebbe poi indebolito l’agire politico degli anni a venire. La narrazione che soppianta l’agire politico come eco a quella imperante del neoliberismo che si imponeva come unica realtà possibile, ideologia che diventava egemone ma negandosi come tale.
Il movimentismo non è sembrato immune dal tracollo delle grandi ideologie novecentesche che hanno trascinato con sé anche la struttura analitica tipica di quel novecento gravido di conquiste. A ben guardare il movimentismo post guerra fredda è, in un certo qual modo, già in sé la risposta inadeguata ad una fase di riflusso. Inadeguata in quanto orfana di concepire il suo presente come processo organico, come esito di spinte egemoniche da parte di istanze ben specifiche che hanno fatto del neoliberismo la dottrina standard applicabile in ogni contesto. Quando viene meno la capacità analitica di una vasta parte del corpo sociale la deriva è sempre disastrosa. Evocando il quadro di Goya “il sonno della ragione genera mostri”, questi ultimi cinque lustri hanno visto un progressivo venir meno della stessa. Quella ragione utile ad investigare il presente e comprenderne tanto le contraddizioni profonde quanto ad anticipare l’esito dei processi dominanti.
Per molto tempo una buona parte della costellazione della cosiddetta sinistra extraparlamentare ha addirittura abbandonato la visione anticapitalista. Il grosso problema è che quando ci si allena a non pensare più in un certo modo poi si finisce col farci l’abitudine. Le grandi linee di pensiero, pur con tutte le contraddizioni intrinseche, riuscivano a cogliere in maniera organica le dinamiche che conformavano il periodo storico e ad immaginare gli scenari futuri. Oggi quella capacità sembra venuta meno e appare imbarazzante il cicaleccio su problemi secondari o collaterali alla crisi in atto. Quel che veramente imbarazza è la trasformazione della militanza in tifoseria da stadio, il dibattito trasfigurato in polemica che denuncia una visione grottescamente manichea della realtà. Mancando una base analitica attraverso la quale interpretare il presente e aggiungendo lo scivolamento verso visioni complottarde, può cominciare a delinearsi con un certa chiarezza la condizione nella quale siamo finiti.
Questa premessa è necessaria per evitare fraintendimenti nelle righe che seguono, nelle quali si tenterà di delineare ed esemplificare la distorsione introdotta da quasi venticinque anni di volontaria astinenza dal pensiero realmente critico. La prima evidenza è la quasi totale mancanza di autocritica; a dirla tutta, solo di recente sembra far capolino qualche articolo o pubblicazione che comincia a fare i conti con la nostra storia recente, ma non è ancora un processo maturo. Questa mancanza riverbera pesantemente nello strenuo e caparbio ricorso a pratiche e parole d’ordine ormai orfane di senso. Non perché inutili in sé, ma perché non supportate o non più conseguenti ad una strategia che abbia come orizzonte un’istanza realmente rivoluzionaria. La seconda evidenza, facente eco alla prima, riguarda l’incapacità di individuare le linee di tendenza del capitale e di immaginarne gli esiti. Ci si chiude spesso nella contingenza di un processo lasciando insondato il processo stesso; un esempio su tutti potrebbe essere il reddito di cittadinanza. Un provvedimento che pur uscito da un’area politica che definire ridicola sarebbe un complimento, non è farina propriamente grillina. Chi si ferma a questa lettura non ha contezza di cosa sta accadendo nel resto del mondo. Il reddito di cittadinanza va letto all’interno della fase storica, altrimenti sfugge completamente il suo significato. È una semplice misura che coglie due piccioni con una fava, ossia agisce da calmiere per gli strati meno abbienti del corpo sociale e sostiene la domanda di beni e servizi. Una grossa operazione di “pompieraggio”. Non ci si può comunque limitare a questa considerazione; la questione del rdc va inserita in una chiave di lettura assai più ampia, sistemica e strategica, che solo un punto di vista squisitamente anticapitalista può fornire. Il reddito di cittadinanza è essenziale al sistema per tenere a bada quello che una volta si chiamava “esercito industriale di riserva”. Ora questo “esercito”, magari non serve direttamente l’industria, ma funge da leva per ribassare i salari e far digerire il precariato, alimentando la lotta orizzontale tra impoveriti. Invece di impaludarsi fra reddito di cittadinanza sì o no, sarebbe stato più proficuo porsi la domanda: reddito di cittadinanza, perché? In ultima istanza, è sempre bene ricordare che qualsiasi diritto calato dall’alto, senza un soggetto confliggente che lo rivendichi, rischia di diventare un diritto difficile da difendere in assenza, appunto, di una soggettività capace di alterare progressivamente i rapporti di forza tra lavoro e capitale.
Analogo discorso per l’invasione dell’Ucraina. Forse qui la visione manichea ha raggiunto l’apoteosi; o stai con l’uno o stai con l’altro. Non è ammessa una visione altra che non sia il pro Putin o il pro Ucraina. Delirante! Mancano anche qui una lettura più attenta dei fatti e della fase storica, nonché la capacità di comprendere i vari piani della problematica.
C’è ovviamente un piano internazionale che sta vedendo il blocco occidentale arretrare sotto il peso di quella che qualsiasi economista definisce stagnazione secolare (crescita del PIL minore del 3%), con l’Europa che arranca con una media del 2% negli ultimi due lustri, fatti salvi i contraccolpi del COVID. Si badi bene, che questa situazione permane dalla fine degli anni ’90. All’interno di questo scenario, il traino economico è negli anni mutato e con esso la struttura stessa della globalizzazione, che, per inciso, quando vestiva a stelle strisce, era già bella che sul viale del tramonto nei giorni in cui ci si scornava a Genova. Si affacciano nuovi soggetti che sgomitano per accaparrarsi tutto quello su cui ancora è possibile mettere le mani, dal land grabbing cinese ai contratti energetici russi fino alle strategie di svalutazione della rupia per attirare la produzione in India. Non si tratta di globalismo bipolare in senso stretto da nostalgia per i due blocchi contrapposti tanto cara ai rossobruni, è più l’esito del decennale trasferimento di fasi produttive a bassa specializzazione e/o basso valore unitario che da occidente sono approdate ad oriente, determinando una sorta di doppia circolazione di flussi di capitale. Flussi finanziari e flussi di capitali industriali in senso più aderente alla produzione. da un lato la creazione di valore dall’altra la moltiplicazione finanziaria di parte del valore creato altrove. È in questo bel quadretto che si inserisce il conflitto russo-ucraino, una prova di forza fra opposti interessi parimenti imperialisti, che non si limitano alla federazione russa contro quella americana, sarebbe una analisi raccogliticcia e da sconsiderati, vi è una reale ridefinizione degli interessi economici e delle aree di influenza che è realmente multipolare. Un multipolarismo che si è via via generato nella complessità stessa del processo di integrazione globale, che ha nel tempo creato concentrazioni di interessi e nuovi mercati, sviluppando nuovi concorrenti che si sono via via rafforzati cominciando ad avere un peso rilevante nello scacchiere globale, è il caso dell’Iran ma anche delle piccole repubbliche ex URSS assolutamente non allineate con la federazione russa, con una élite economica desiderosa di infilarsi al banchetto globale costi quel che costi. Certo, nel conflitto russo-ucraino va compreso anche il piano locale, con una popolazione ucraina in costante tensione dal 2009, che ha visto i primi scontri nel 2014 e adesso vive l’orrore della guerra conclamata, avendo vissuto l’alternarsi di governi proni alle oligarchie interne o a quelle russe, fino all’ultimo governo assai più aperto ad occidente, per non dire di peggio.
È chiaro che in questo quadro di successivi scossoni e crisi economiche, vedersi arrivare addosso bombe e missili, costringe chiunque non abbia vie di fuga a fare delle scelte e a prendere una posizione qualunque essa sia, purché dia la possibilità di salvare la pelle o di avere una parvenza di utilità per difendersi. Ora, quante panzane e quanti sproloqui siamo costantemente costretti a leggere su questa ennesima guerra tutta interna al capitale? E si potrebbe andare avanti con altri “casi” anomali fino a scoperchiare il bubbone della spesa sociale sanitaria, dove si sono viste le più assurde scaramucce tra chi giustamente si oppone alle spese militari a scapito, tra le tante cose, di un servizio sanitario realmente efficiente tanto per chi ci lavora quanto per chi ne usufruisce, mentre alcuni pezzi di movimento addirittura sconfessavano il Servizio Sanitario Nazionale, in quanto foriero degli interessi delle multinazionali e funzionale alla casta dei medici. Se da un lato le ingerenze aziendalistiche di stampo neoliberista e i tentacoli del mercato hanno effettivamente ridotto la sanità ad una sorta di nastro trasportatore di fondi pubblici verso le tasche private, dall’altro è assai più imbarazzante voler buttare via il bambino con l’acqua sporca. Eppure, nel processo di progressiva perdita di contatto con la realtà, interi pezzi di movimento hanno preso derive di questo tipo. Spesso anche peggiori, con cortocircuiti che sembrano rasentare la schizofrenia, da un lato si scende in piazza per difendere il diritto alla salute e dieci minuti dopo si menano strali contro la scienza medica proponendo rimedi naturali magari contro il cancro. Ora delle due l’una. E le macro contraddizioni potrebbero andare avanti su svariati come neo-contadinismo che non tiene conto della realtà iper urbanizzata e che fornisce risposte ultra marginali ad una tematica complessa come la sovranità alimentare, una posizione che non tiene conto dello storico conflitto Capitale-Natura. E ancora il primitivismo, altra forma di oblia della lotta anticapitalista, che possibilmente affonda ancor di più la testa nella sabbia, in una fuga indietro perché non si accetta la tecnologia in quanto tale, non tentando neanche di strapparla di mano al capitale e comprendendo come sia lo scopo finale a rendere depauperante e dannosa la tecnologia. È innegabile che in queste condizioni, sia assai difficile far fronte ad una delle fasi storiche più complesse degli ultimi cinquant’anni; per una totale incapacità di far presa sui territori e di distinguere le ombre dalla realtà; per il fatto di preferire i complotti alla realtà della sussunzione totale al capitale. Siamo ai minimi storici che ci piaccia ammetterlo oppure no. Le tanto sbandierate reti di solidarietà e mutualismo, tanto in voga agli inizi degli anni duemila, sono morte e sepolte, schiacciate da leaderismi e dalla sete di egemonia di questo o quel pezzo di movimento. Una sorta di tendenza al monopolio tanto tipica dell’economia di mercato. Il precariato ha talmente indebolito anche i legami politici da causare delle lacerazioni nel tessuto movimentista, creando arcipelaghi con isolette di autoreddito o nicchie di mercato, depotenziando l’impegno militante fino a renderlo effimero e sempre più simile al volontariato. Ciclo dopo ciclo, anno dopo anno, manifestazione dopo manifestazione, siamo spariti senza più far paura a nessuno. Abbandonando i fondamentali che chiarivano i conflitti insiti nell’esistenza stessa del capitale, abbiamo confuso il conflitto capitale-lavoro con il conflitto orizzontale per accaparrarsi un lavoro o peggio, sentirsi “sulla stessa barca” dei padroni. Il conflitto capitale-natura è stato storpiato fino a giungere alla narrazione melensa dell’ecologismo più pingue, finendo per lottare “abbracciati agli alberi”. Il conflitto tra capitale e riproduzione sociale è diventato la lotta interna fra piccola borghesia proletarizzata e chi ancora sta a galla, rivendicando la perduta capacità reddituale. In tutto questo strano mondo c’è bisogno di riprendere il bandolo della matassa e di fare chiarezza. Recuperare la facoltà raziocinante della dialettizzazione dei problemi e della comprensione dei processi che stritolano individui e comunità in funzione del vero unico e solo nemico esistente, il modo di riproduzione capitalista.
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