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L’Italia armata, i falsi miti e le zone grigie nel saggio di Giorgio Beretta

Riceviamo e pubblichiamo volentieri questa recensione del saggio “Il Paese delle armi. Falsi miti, zone grigie e lobby nell’Italia armata” di Giorgio Beretta.

di Michele d’Amico

Ancora violenza, ancora femminicidi. Dall’inizio dell’anno sono tre le donne uccise, e tutte da uomini con armi da fuoco legalmente detenute. Sono notizie che preoccupano e dovrebbero indurci a riflettere sulla facilità con cui si può avere un’arma in Italia. Come spiega Giorgio Beretta, analista del commercio internazionale e nazionale di sistemi militari e di “armi leggere” e dei rapporti tra finanza e armamenti, nel suo saggio “Il Paese delle armi. Falsi miti, zone grigie e lobby nell’Italia armata” (edito da Altreconomia in collaborazione con l’Opal), ci sono ancora molte ombre sulla produzione, il commercio e l’uso delle armi “comuni” sul nostro territorio. I sistemi di controllo sono troppo blandi e mancano delle norme che consentano di verificare in modo certo e inequivocabile che chi richiede o rinnova le licenze non soffra anche temporaneamente di disturbi psichici. Inoltre, dal punto di vista medico è sufficiente un’autocertificazione controfirmata dal medico curante e una vista dal medico legale della Asl. Per l’autore, tuttavia, i vulnus normativi sono soltanto un aspetto di una questione più ampia, quella «dell’ideologia delle armi», che ha contribuito anche a trasformare il Belpaese nel principale produttore di “armi comuni” in Europa. Un’ideologia che si nutre di false convinzioni, di paure fabbricate e utili per la propaganda di una certa destra reazionaria, di falsi problemi costruiti dai mass media attraverso la spettacolarizzazione e la serializzazione per incentivare l’uso di armi: «crimini come gli atti di violenza e gli omicidi per furti e rapine nelle abitazioni… sono fenomeni gravissimi ma statisticamente marginali, vengono di conseguenza percepiti come vicini, pervasivi, continuativi». (p.82) In questo modo le persone cercano la strada più semplice per detenere un’arma nelle proprie case, preferiscono alla licenza per armi per uso venatorio quella per tiro sportivo: in poco più di vent’anni si è passati da 100.000 a 600.000. E in molti casi si tratta di persone che non sono iscritte a nessuna associazione e non praticano alcuna disciplina sportiva. Eppure il possesso dell’arma, anche se legale, rappresenta se non un incentivo, una condizione che ne può favorire l’impiego per commettere omicidi. I dati diventano ancora più allarmanti se consideriamo che in Italia non è stato mai pubblicato un rapporto ufficiale col numero di persone che posseggono una licenza per armi e sul numero di armi regolarmente detenute nelle case degli italiani. Ma sono anche altre le zone grigie che Giorgio Beretta ha individuato tramite il suo attento lavoro scientifico. In Italia si producono tante armi, ma soprattutto si esportano. E non si tratta soltanto di armi da guerra. Ciò che desta particolare preoccupazione è la volontà da parte dello Stato di non farci conoscere i sistemi militari che finiscono nei vari Paesi nel mondo non sempre democratici.  «L’esportazione di armi a regimi autoritari è un problema che non riguarda solo le autorità governative che rilasciano le licenze di esportazione e le rappresentanze governative, ma anche le stesse aziende che producono ed esportano armi» (p.53). Proprio le imprese e le associazioni di categoria come Anpam rinunciano alla loro responsabilità sociale, non attuano Codici etici. Anzi, «le aziende del settore non svolgono un ruolo semplicemente passivo come meri destinatari di ordinativi di Paesi esteri, ma sono invece attivamente impegnate per promuovere i propri prodotti in questi Paesi spesso contattandone direttamente i rappresentanti governativi e delle forze armate, stabilendo accordi commerciali e anche di produzione in loco e partecipando a fiere e saloni di armi internazionali e nazionali, anche organizzati da regimi repressivi». (p.59). I produttori di armi sono molto attenti a non rendere noti i clienti eccellenti, «in particolare quando si tratta di dittatori come Gheddafi (il suo arsenale privato, rifornito dalla Fabbrica d’Armi Beretta è stato totalmente saccheggiato dagli insorti), di corpi di sicurezza pubblici e privati conniventi col crimine (è il caso delle forze di polizia e di private securities del Messico), o di regimi autoritari come l’Egitto, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi, Turkmenistan, Kazakistan, Oman, Bahrain, Iraq e Qatar» (p.11). Sul fronte prettamente economico, poi, a differenza di quanto si tende a credere, non si riscontrano affatto effetti particolarmente positivi sul Pil. Il settore di armi e munizioni comuni vale, infatti, circa 600.000 milioni di euro. Una cifra molto distante, per fare qualche esempio, dall’eccellenza tutta “Made in Italy” dell’occhialeria, quasi 4 miliardi di euro, e decisamente più vicina alla produzione italiana di giocattoli. A questo punto è utile precisare che Giorgio Beretta con questo lavoro non ha voluto soltanto individuare le criticità sulla produzione e l’uso di armi nel nostro Paese. Nella parte finale si possono leggere alcune proposte utili per le istituzioni, i rappresentanti politici e le associazioni di categoria, a partire da una maggiore trasparenza sulle esportazioni, sul numero di porti d’arma e sulla diffusione delle armi legali, la realizzazione di report annuali da parte del Viminale sugli omicidi, tentati omicidi e suicidi con armi legalmente detenute. E inoltre maggiore attenzione alle licenze e alla loro ragione d’essere, accertamenti dei requisiti psicofisici, durata delle licenze per anziani, comunicazione ai conviventi maggiorenni, comunicazione tra Asl e Questure. Infine, una maggiore responsabilità sociale delle imprese.

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