La stabilità non è un nostro problema
Ogni fase politica si serve di un frasario proprio, d’altra parte il governo dell’esistente passa sempre per l’imposizione di un ordine dominante di discorso. In Italia però gira da un quarantennio, come in un disco rotto, sempre la stessa fanfarina; quella dell’appello all’unità delle forze democratiche contro le “minacce alla tenuta democratica del paese”.
Buon sangue (sic) non mente: il cursus honorum di Marco Minniti, tutto interno agli uffici più reazionari del P.C.I. stalinista ne tramanda la tradizione, quella della continua rifondazione della Repubblica antifascista sull’antiterrorismo, o meglio sul contrasto al conflitto di classe degli anni ’70. Un fatto che non racconterebbe nulla più che una guerra civile vinta dallo Stato se, dalle forze inscritte nel campo costituzionale che combatterono in prima linea, i piccisti primi tra tutti, questa guerra non fosse sotterraneamente sempre tenuta aperta, nell’ipotesi del rinnovo, o ritorno, di un qualche stato di eccezione che salvi i livelli del dominio (altrementi detti “democrazia”), da qualsiasi forma di conflitto. L’ Ur-phänomen fu il terrorismo, come dicono, ma c’è sempre una forma attuale di quella minaccia da agitare per neutralizzare il prodursi di nuove dimensioni di contrapposizione sociale in questo paese. Quali sono oggi queste dimensioni? Quelle che più “terrorizzano”?
Minniti alla festa a Pesaro del Partito Democratico non ci è girato tanto attorno: “Ad un certo momento ho temuto che, davanti all’ondata migratoria e alle problematiche di gestione dei flussi avanzate dei sindaci, ci fosse un rischio per la tenuta democratica del Paese”. Ed eccolo il solito disco incantato. In particolar modo, il ministro, si riferisce al periodo di fine giugno, quando “sono arrivati 12 mila 500 migranti in sole 36 ore su 25 navi diverse”, e con un volo pindarico che assimila l’aumento dei flussi migratori alla paranoia attentati, chiude gonfiandosi il petto dicendo che: “l’Italia viene da due vittorie: abbiamo sconfitto il terrorismo interno e il terrorismo mafioso, quando la mafia decise di mettere le bombe”. E si chiude il cerchio celebrativo con, sullo sfondo, la bonaria benedizione di tutti i martiri della religione civile di questo paese: da Moro a Falcone e Borsellino. Ma che c’incastrano? Nulla se non essere, per l’appunto, i numi tutelari della storia di tenuta democratica di questo paese. L’uomo nero come i brigatisti e gli stragisti. Ma che dici, Minniti? Oltre l’evidente demagogia, a dire il vero pure un po’ usurata, c’è un elemento da cogliere più in profondità nel discorso di Minniti che fa leva sulla paura della destabilizzazione, non tanto su quella degli attentati: c’è una tendenza inarrestabile di nuova forza umana sociale e di massa che pretende da noi un risarcimento per le guerre, per il nostro benessere sistemico sociale ed economico costruito sulla predazione di un’altra parte di mondo, la loro, e che è disposta a lottare per questo, come confermano le continue proteste nelle galere da campo predisposte dallo stesso Minniti o come ha segnalato la resistenza di piazza Indipendenza.
A oggi le strategie per disinnescare questa minaccia sono due: una militare, spostando carceri e milizie nei confini sud del Mediterraneo, con un impegno diretto o tramite le clientele mafiose dei potentati locali, e l’altra politica, infame, che alimenta un razzismo diffuso, coperto dalle forze “responsabili”, come opzione autoritaria della conservazione democratica davanti a forze nuove che spingono, su un conflitto, verso la destabilizzazione. Perché con chiarezza va anche affermato questo: i flussi migratori inflazionano una domanda di benessere, mettono sotto pressione le insufficienze sistemiche nell’assorbire crescenti aspettative sociali, destabilizzano un quadro di governo della crisi costruito sull’austerity. Non esistono migrazioni cattive o buone. Non crediamo agli appelli, che pure affollano il campo della sinistra comunista, in fondo anche questa un po’ frastornata, che invitano i governi occidentali a sospendere l’aggressività neo-coloniale per tornare a un mondo ordinato. Il passato è irrimborsabile e non c’è un giusto ordine possibile che non parta dalle pretese di uomini e donne nello sviluppo capitalistico attuale. È allora sull’irreversibilità di questa minaccia che bisogna scommettere, tanto sul versante sociale, ingaggiando la competizione sul conflitto rivolto verso l’alto con quel segmento impaurito e rancoroso di proletariato italiano, quanto politicamente contro l’antistorico arroccamento nella difesa della stabilità – o tenuta, si diceva – democratica del paese che, fuor di retorica, altro non vuol dire se non il rifiuto autoritario a ricontrattare le forme, i limiti e le condizioni di questa democrazia.
Per il momento Renzi, per quanto possa soffrire il protagonismo di un galletto concorrente come Minniti che gli ruba la scena, punta sul ministro degli interni, pur di non cedere agli scissionisti cosiddetti “di sinistra”. Le imminenti elezioni in Sicilia diranno molto sulla sostenibilità di questa scelta. Un’eventuale, per giunta probabile, sconfitta potrebbe portare a un punto d’arresto della vocazione maggioritaria dem, ma con uno spostamento complessivo già compiuto del quadro istituzionale ormai… democraticamente (!) irrecuperabile. Dal canto nostro vediamo, fuori da quel recinto, una variabile non sopprimibile crescere e avanzare. Sono gli uomini e le donne che vengono via la sera dai campi di pomodori nel sud del paese e che di tornare in quelle baracche schifose con la minaccia degli sgomberi della polizia non ne possono più. Il mattino dopo si alzeranno per prendere un treno, o chiedere un passaggio su quelle strade bloccate dai loro fratelli e delle loro sorelle che sono stufi dei letti con i pidocchi nelle galere dell’accoglienza gestite dai bianchi buoni, dove per meritarti di stare al mondo devi sorridere, dire “grazie signore” e andare a pulire le strade e i giardinetti di chi porta il cane a pisciare o i propri bambini a giocare, mentre i tuoi sono dall’altra parte del mare. Sono già i nostri figli che ascoltano Ghali con quell’amico marocchino che gli ha insegnato solo parolacce, per odiarci, per dire che hanno ragione e il mondo non sarà più lo stesso. Sì, deve essere più giusto.
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