25 Aprile. Non c’è memoria senza pratica partigiana.
Quale paese arriva alla ricorrenza del 25 Aprile? L’attentato di Macerata e l’omicidio di razzista di Firenze hanno segnato i tempi più recenti. Altrettanto hanno fatto le decine di piazze di scontro che nel febbraio hanno riportato l’antifascismo al proprio posto: nelle piazze conflittuali e meticce che non hanno avuto paura di indicare e attaccare i responsabili delle barbarie prodotte da una guerra tra poveri fomentata – con linguaggi e forme differenti – dall’intero sistema dei partiti. Da Salvini fino a Renzi.
Il tentativo pre-elettorale del Partito Democratico di intestarsi l’antifascismo non ha potuto fare altro che disintegrarsi di fronte all’emersione di questa realtà: esiste una composizione di classe di generazioni e colori della pelle differenti che nei fascisti e nei loro discorsi vede l’espressione più nitida di un presente già profondamente ostile, e non certo la sua messa in discussione. E allora il contrario di fascismo non è difesa delle istituzioni, ma contrapposizione, rifiuto, conflitto. Anche contro queste stesse istituzioni.
Lo sanno bene Dibi, Brescia, Moustafa e Nicolò, ancora in carcere o ai domiciliari da questo febbraio di scontro antifascista. Lo sanno bene i migranti, come quelli protagonisti della rivolta di Firenze, a cui è evidente la similitudine e la complementarietà dei fascisti che in questi giorni sono andati ad alzare recinzioni sui passi delle Alpi con le istituzioni dei decreti Minniti e dei campi in Libia. Soprattutto dal momento in cui tutto ciò si svolge sullo sfondo di un ordinamento sociale in cui la linea del colore va a definire una doppia condizione proletaria di sfruttamento e discriminazione.
Condizioni di vita proletarie e il loro rifiuto. E’ a questo terreno che dobbiamo ancorare un nuovo discorso e una nuova proposta antifascista. E’ questo l’unico modo per ancorarla alla nostra attualità. Non ci deve interessare un antifascismo come terreno separato dai conflitti, un’identità imbalsamata ed immobile sganciata dalle lotte e dalla classe. Da queste storture negli anni abbiamo visto nascere al massimo autorappresentazioni super-radicali sempre pronte a dimostrarsi per quello che sono: alla prova dei fatti neutralizzate ed inoffensive, sempre fuori ritmo nell’emergere quando serve e nel modo in cui serve, a volte perfino ambigue nell’indicare una traiettoria antagonista. Ci serve altro.
La memoria per noi non è il terreno della conciliazione, ma un altro terreno di contesa e di scontro. Questo 25 Aprile le istituzioni di oggi celebrando la propria nascita celebreranno se stesse. Ma cosa può voler dire per noi, invece, la ricorrenza dell’insurrezione popolare di settantatrè anni fa? Da questa angolatura possiamo guardare alla ricostruzione di una nostra memoria e di una nostra storia, di parte. Che sappia parlare di oggi, che azzardi l’irruzione nella scena di chi oggi sente tutti i giorni sulla propria pelle la necessità di una nuova liberazione dal razzismo e dallo sfruttamento. La sfida che abbiamo davanti è quella di sintonizzare l’intolleranza verso chi fomenta la guerra tra poveri con la volontà diffusa di far pagare un prezzo a chi, dai piano alti, occupa posizioni di potere e di privilegio. I palchi delle celebrazioni istituzionali chiamano alla contestazione.
Un lavoro pluridecennale di neutralizzazione della memoria ha trasformato i partigiani di quegli anni di resistenza antifascista in icone sacre ma distanti, irripetibili, di fatto neutralizzate. E invece oggi come ieri, dietro le biografie dei partigiani c’è la semplicità di storie comuni di giovani proletari – quelli che oggi troveremmo a lavorare nei ristoranti, nei magazzini e nei mille luoghi della precarietà lavorativa e di vita– che si mischia alla straordinarietà della scelta di prendere la propria parte per far cambiare rotta alla storia. Oggi come ieri, si tratta di sfidare chi comanda e mettersi in gioco per un progetto radicale di trasformazione.
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