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Dentro e contro l’autunno

Renzi è stato spesso accomunato a Blair. La Leopolda, quello che l’ha preceduto e i pochi giorni che ne sono seguiti, mettono in discussione questo apparentamento e ne propongono uno più radicale. Renzi è ora equiparabile, negli intenti e nelle modalità di azione, a Reagan e alla Thatcher. Analoga è infatti la determinazione di spianare tutto ciò che si frappone davanti alla propria brama di affermazione, siano essi diritti residuali, sindacati innocui e concertativi, pezzi del proprio partito riottosi a piegarsi al potere personale del leader nel tentativo di difendere privilegi acquisiti. A essere molto differente è la fase politica. Reagan e Thatcher venivano dopo due decenni di lotte e movimenti rivoluzionari. Per rispondere a quella sfida, non potevano limitarsi a restaurare l’ordine costituito del capitale: dovevano operare all’altezza di quei movimenti e della loro potenza rivoluzionaria, dovevano cioè praticare una rivoluzione al contrario. Iniziava l’epoca conosciuta come neoliberalismo.

Più modesta è l’aspirazione del piccolo fiorentino – per quanto abbia dietro di sé enormi interessi di classe e per realizzarsi debba agire pesantemente sulla costituzione materiale del paese. Renzi vuole sostituire una classe dirigente con un’altra. La rottamazione è uno scontro di potere tutto interno alla casta. Per ottenere questo risultato deve rompere e spianare appunto i vincoli e i sistemi di clientele ereditati dal Partito Democratico e dai suoi predecessori. Tutto ciò, ovviamente, per costruire nuovi vincoli e clientele, che siano diretta espressione della nuova classe dirigente che il renzismo cerca di imporre. È una casta pragmatica e post-ideologica, nel senso che cerca di utilizzare tutte le ideologie utili ai propri fini. È un governo di classe, quello che non è mai riuscito a Berlusconi, che il Corriere della Sera poteva nemmeno osare di sognare e che invece il partito di Repubblica è riuscito a realizzare. Confindustria e Legacoop uniti per affermare una cosa molto semplice: la crisi la devono pagare i lavoratori e i soggetti produttivi impoveriti.

In questo quadro, chi oggi vede la Cgil come bandiera dell’opposizione sociale o è miope, o è in malafede. La Cgil ha da tempo rinunciato a qualsiasi pratica o ipotesi di conflitto, fosse anche in termini semplicemente riformisti, accettando e sottoscrivendo qualsiasi atto di dismissione dei diritti dei lavoratori. Ha funzionato anzi come tappo rispetto alle possibilità del lotta. Susanna Camusso ha provato a fare un passo in più, tentando di trasformare il sindacato in un soggetto della governance capitalistica, svolgendo anche alcuni dei ruoli che il Pd non era in grado di svolgere. Con la sconfitta di Bersani, quel progetto – ripetiamo, tutto interno alla casta – si è consumato: Renzi ha scelto lo scontro frontale, e difficilmente si fermerà prima di essere andato fino in fondo. Che vada bene o male, è anche attorno a questo scontro interno (che non è conflitto sociale) che si gioca il suo progetto di potere e di governance. Prova ne siano gli scambi di insulti personali che tra cinguetti e giornali sono volati negli ultimi giorni: in una politica istituzionale ridotta a rappresentazione mediatica individuale, queste cose contano ben più delle opzioni politiche (su cui, come è noto, le differenze sono pressoché nulle).

Anche le manganellate contro gli operai della Ast in corteo a Roma ci parlano di questi processi. Gli operai sono stati trasformati in una sorta di icona intoccabile nella misura in cui da un lato avevano perso la loro centralità politica e forza conflittuale (quanti morti furono fatti dalla celere di Scelba per rendere governabili le fabbriche percorse dal conflitto di classe?), dall’altro i sindacati e in particolare la Cgil si erano assunti il compito di garanti della pace sociale. Ora il renzismo ritiene che anche questa funzione di pompieraggio non sia più utile, o comunque costi troppo rispetto ai suoi progetti di nuova classe dirigente. Fa ovviamente ridere vedere la Camusso agitarsi con toni apparentemente focosi per la difesa dei posti di lavoro, che sono in realtà i loro posti di lavoro come sindacalisti. È altrettanto ironico urlare allo scandalo perché le teste rotte dai manganelli sono quelle degli operai e non quelle di studenti, precari e giovani, cioè di tutti i soggetti irrappresentabili dai sindacati. Ma al di là dell’ovvia evidenza, il punto ci pare un altro: il governo Renzi assume in pieno l’avvenuta crisi della rappresentanza e lo fa a tal punto da determinare un quadro di completa autoreferenzialità della politica istituzionale rispetto alle dinamiche sociali, perfino alle loro funzioni di mediazione. In questo processo un sindacato come la Cgil fatica a difendere la propria posizione di rendita, perché tale posizione era legata alla politica della rappresentanza e al suo essere cinghia di trasmissione tra partito e governo del sociale. Lo stesso sistema delle cooperative diventa in modo diretto modello dello sfruttamento brutale, senza più bisogno di eccessivi fronzoli. Sarebbe facile dire che all’autonomia della politica istituzionale corrisponde la possibilità di autonomia del sociale. Certamente però qui già ci sono o ulteriormente si aprono dei terreni e delle possibilità di conflitto, che possono sfuggire alle istituzioni che presumono di rappresentarli (ed è questo che li terrorizza e fa rimandare perfino la proclamazione di un timido sciopero generale, oltre che ringraziare Alfano – come ha fatto la Camusso – per le belle parole nei confronti di poliziotti e lavoratori). Ma questa possibilità difficilmente si concretizzerà attraverso la sola spontaneità.

A questo punto, di fronte a occasioni di conflitto che si possono costruire, corriamo un doppio rischio. Da un lato, quello di accodarsi alla Cgil nella difesa della casta sindacale e del proprio codazzo funzionariale, magari facendosi abbindolare da consunte mitologie della classe operaia fatte di mani callose e tute sporche di grasso. Dall’altro, quello di buttare via il bambino con l’acqua sporca, cioè chiuderci in posizioni che per quanto ideologicamente corrette ci tagliano però fuori dalla possibilità di far saltare il banco su cui i sindacati vorrebbero gestire la partita. Il problema, dunque, è come trasformare queste occasioni in terreni di scontro radicale rispetto al Pd, alla politica istituzionale e alle sue articolazioni, comprese quelle della Cgil. In questa fase il codismo consegna all’inutilità, il settarismo alla marginalità. Conquistare una vocazione egemonica significa avere la capacità di costruire indicazioni politiche di rottura anche muovendoci su terreni non nostri. Restare esclusivamente sui propri terreni significa essere isolati, che è l’esatto contrario dell’egemonia. Ed è, soprattutto, il favore più grande che si può fare alle nostre controparti, assumano esse il volto rampante di Renzi o nevrotico della Camusso.

Il giorno dopo la morte della Thatcher compariva una scritta su un muro di un quartiere di Belfast: “Iron Lady? Rust in peace”. Non può maledettamente assomigliare al nostro #Renzistaisereno? Per fare questo bisogna però assumersi dei rischi, mettere in gioco quello che siamo per conquistare quello che possiamo diventare. Almeno proviamoci, possibilmente prima di aspettare il decesso naturale.

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