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Dopo la primavera, l’autunno arabo

Chi credeva che la Primavera Araba avesse ormai sortito i sui effetti ha dovuto presto ricredersi. I popoli arabi non accettano una “rivoluzione a metà”: in primis l’Egitto dove in queste ore è in corso la “seconda insurrezione” di Piazza Tahrir: in migliaia, milioni, si sono ritrovati ancora una volta in quella che è stata e che continua ad essere la Piazza della Rivoluzione per dire no ad un governo militare che sempre più sembra utilizzare tutti gli strumenti repressivi del deposto rais Mubarak.

In Egitto in questi giorni si è avuto un importantissimo salto di qualità: non solo gli attivisti; adesso tutto il popolo egiziano non crede più alle vuote promesse della leadership militare, adesso l’Egitto non è più disposto ad aspettare un governo civile che non ci sarà, non è più disposto a vedere mantenuti gli innumerevoli privilegi della giunta militare, non è più disposto a veder tradite le aspirazioni rivoluzionarie. Le parole d’ordine della rivoluzione, la libertà, la giustizia sociale sono adesso più che mai chieste a gran voce nell’Egitto rivoluzionario.

Ma non solo in Egitto: la primavera araba si è riaccesa in tutti i paesi arabi. In Bahrain, quel piccolo pezzo di terra tanto importante per gli interessi statunitensi, il popolo ricomincia ad alzare la testa contro la casta politica che da anni ha svenduto il paese all’occidente.

In Yemen, dopo quasi un anno di tentennamento sembra che il rais lasci il potere, e che i valori rivoluzionari, a lungo repressi con la scusa della prevenzione del “terrorismo internazionale” con il bene placido degli Stati Uniti, vengono nuovamente alla luce. In un paese al centro dell’instabilità come quello yemenita sicuramente difficile sarà la transizione e molti saranno i poteri che cercheranno di influenzarne le dinamiche, ma finalmente le dimissioni del rais Salah sembrano riaccendere le speranze di una vera giustizia sociale in un paese in cui tutti i movimenti sociali sono stati a lungo bollati come “terroristi” e repressi con la scusa di Al – Qaeda.

Addirittura nella calma Arabia Saudita il popolo cerca di alzare la testa contro anche qui un governo dispotico che per decenni ha svenduto le ricchezze naturali ai poteri occidentali, un governo che si è mostrato il paladino per eccellenza degli interessi statunitensi nell’area. Anche nel paese saudita si diffondono sempre più partecipate manifestazioni per una vera giustizia sociale, ed anche qui la feroce repressione fa molti morti tra i manifestanti.

Arabia Saudita, Yemen, Bahrain, in questi paesi a lungo le rivolte arabe sono state bollate come scontro tra la maggioranza sciita che scendeva in piazza e la minoranza sunnita al governo che da anni si è schierata in pieno supporto delle potenze occidentali. Ma adesso non c’è più scusa che tenga, non basta più bollare i manifestanti come gruppi strumentalizzati da Al – Qaeda, non basta più bollarli come sciiti che vogliono prendere il potere a lungo appartenuto ai sunniti. Le giornate di lotta che il Medio Oriente sta vivendo in queste ore lo confermano: il popolo arabo in rivolta pretende una vera giustizia sociale e pretende che le aspirazioni rivoluzionarie che tanti morti si son portate con sé negli ultimi anni non siano tradite.

Piano piano tutti i tasselli fondamentali delle politiche occidentali di svendita delle risorse nazionali agli interessi statunitensi, del servilismo alle organizzazioni della finanza occidentale, con le diseguaglianze e le ingiustizie sociali che intrinsecamente si portano con sé, sembrano dover fare i conti con un mondo arabo in rivolta che nei mesi anziché indebolirsi sembra in queste giornate riacquisire la propria forza rivoluzionaria.

La giornata che oggi vedrà protagonista l’Egitto di piazza Tahrir influenzerà non di poco tutti gli altri paesi dell’area: l’Egitto da cui tutto è partito oggi porterà in piazza, con una forza e con una rabbia più forte che mai, le parole d’ordine che da mesi vengono inneggiate dalle piazze del mondo arabo in rivolta.

 

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