Le loro guerre sono anche le nostre se non le combattiamo
“Basta con i controvertici”. Non basta questo genere di affermazione per curare lo sviluppo di un’iniziativa di parte, che abbia gambe per durare, che abbia la forza di rovesciare una narrazione e di organizzare un’alterità all’esistente. C’è una verità pesante, difficile da aggirare: il mondo costruito attorno a noi ci schiaccia. Quando la sua aria si fa troppo pesante, bisogna comunque fare i conti con la realtà per riprendere a respirare. A ogni attentato in qualche capitale europea, nell’attesa paranoica delle prossime immagini scabrose di qualche macelleria più vicina a noi ma sempre telecondivisa via social network, a ogni breaking news sul rullo dei tg 24/h che annuncia una nuova mossa in qualche scacchiere di guerra siamo condannati all’impotenza, o peggio all’indifferenza… al lasciar riassorbire quel frammento di attenzione speso nel prossimo evento mediatizzato.
Giusto alla vigilia del G7 dei ministri degli esteri di Lucca – che annoverava anche qualche invitato speciale come Turchia, Emirati Arabi, Arabia Saudita e Giordania per discutere di Siria – siamo stati travolti da nuovi eventi. La strage di Idlib, la rappresaglia statunitense con il bombardamento in Siria, l’attentato di Stoccolma. Le loro guerre, abbiamo detto; ma sono le loro guerre che diventano le nostre se non le combattiamo. Il G7 lucchese ci portava un pezzo di guerra in casa, nascondendola dentro le mura di un città fortificata e presidiata da centinaia di poliziotti a ognuna delle sue otto porte. Come urlato ai megafoni del corteo contro il vertice che ha attraversato la città toscana passando per la circonvallazione che costeggia gli spalti delle mura, là dentro nessuno sarebbe morto per le loro guerre. È fuori dai loro fortini che si muore. Siamo quel fuori, la realtà governata, espulsa dal piccolo universo securizzato dei decisori. Questo il dato. Avere il coraggio di essere non solo un pezzo di realtà esplusa ma di scegliere di essere un pezzo di realtà non assimilabile al loro ordine è passato per l’attaccare quella fortezza del G7. Costruire su questo un altro evento che, nella partecipazione collettiva, si può fare passaggio per un’altra parola, per un’altra risposta al prossimo attentato, al prossimo eccidio. I varchi per invertire i processi esterni a noi vanno trovati, non si possono inventare. C’era un tempo e un luogo non organizzati da noi, quel noi fuori dalle loro fortezze, che non poteva essere mancato per iniziare ad ambire alla possibilità di sottrarci alla loro oppressione, attaccando frontalmente chi difende chi fa la guerra, per provare a combatterla e non venirne consumati nella passività. Su porta San Jacopo a Lucca c’è stato questo tentativo.È il primo, affrontato con la fiducia e l’entusiasmo di dire “si può fare”… cucù Minniti, siamo sempre qui.
Non è facile parlare dell’orrore che si consuma lontano e ci lascia impotenti ad assistere. La giornata lucchese di ieri, con umiltà, ha messo in luce la difficoltà a connettere realtà distanti, investite a differenti intensità dallo stesso disordine globale riorganizzato sul piano del politico e del dominio da chi comanda per conto da interessi predatori di spartizione sul mondo. Parlare della guerra non è facile. I nemici sono distanti ed oscuri, e a essere il primo bersaglio non siamo noi, investiti dai conflitti globali nella forma delle guerra sociale o di quella terroristica di ritorno. Eppure, allo stesso tempo, la generosità delle centinaia di persone scese in piazza ieri, la loro determinazione a non accettare le prescrizioni su come manifestare, ha suggerito un discorso possibile che umanizza per noi, anche per noi, “gli assolti – fin’ora – dall’occidente”, le guerre remote, le riporta a un livello di forme di vita similare che ci unisce in una stessa parte: quella di chi ha bisogno di fare guerra a chi fa la guerra per cambiare e immaginare come non subire ancora. Non è una risposta, è la ricerca di una risposta a partire dalla messa in gioco e dallo scontro. La guerra che subiamo ogni giorno, quella da rispedire al mittente, è guerra sociale e attorno a questa emerge una parte subalterna non accetta più di essere il costo accessorio delle politiche di dominio degli ministri riuniti nel G7 e degli altri attori presenti sugli scenari di guerra. Non siamo più disposti a pagare con altre Valeria Solesin, con altri Giulio Regeni… per parlare solo di ragazzi e ragazze più vicini ai nostri mondi ed esperienze quotidiani.
L’ipocrisia va smascherata. Nessuno ci regalerà la possibilità di sfuggire a destini non decisi da noi se non ci mettiamo di traverso e non fermiamo non solo il furto del presente, consumato nel tempo scandito dai loro giochi, ma anche della nostra storia, quella della nostra parte. Ieri mattina Alfano ha acompagnato il Segretario di Stato americano Rex Tillerson a fare una scampagnata a Sant’Anna di Stazzema, sul luogo dove i nazifascisti trucidarono 560 persone per rappresaglia verso un territorio e una poplazione “infestata” dai partigiani. “Saremo quelli che difendono gli innocenti nel mondo”, ha detto Tillerson. Allora, come oggi, le armi e l’ostinazione per difenderci bisogna guadagnarcele. La nostra parte non ha protettori in questo mondo. Il nostro messaggio di sfiducia è stato recapitato, ci vediamo a Taormina.
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