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Le parole da opporre al sultano stragista

Le notizie provenienti da Ankara sono di quelle che fanno vibrare di collera le dita sui tasti per comporre, parola per parola, qualcosa che dia un senso, uno stimolo a reagire davanti al violento sterminio di decine di persone, scese in piazza per opporsi alla barbara savaş di Erdogan.

Troppa è la rabbia davanti all’ennesima tappa di una strategia della tensione pur annunciata, dopo la disfatta elettorale dell’AKP del 7 giugno scorso unita alla presa delle YPG di Tel Abyad;  la risposta del sultano è stata quella del terrorismo a tutto campo, da quello asimmetrico attuato contro Kobane da un ISIS battuto sul campo a quello più convenzionale dei militari e degli apparati di polizia nazionali.

Non c’è solo in ballo la tenuta interna del paese mediorientale, ma anche il contesto di strisciante dismissione strategica della regione da parte dell’amministrazione Obama. Che, con il compromesso sul nucleare iraniano da un lato ed il crescente investimento sulle fonti energetiche alternative dall’altro, risponde ad interessi diversi da quelli dei signori del petrolio dell’era Bush – interessi ora proiettati verso lo spazio del Pacifico, come consacrato dal mostruoso accordo del TPP, e che mirano a lasciare solo un caos mortifero per chiunque si avventuri in quello della mezzaluna fertile.

In questo quadro per i vecchi alleati è arrivata l’ora del “liberi tutti!” – qui purtroppo in accezione opposta a quanto auspicheremmo: dal ritorno delle decimazioni sioniste contro il popolo palestinese; alla guerra assassina contro quello yemenita della monarchia saudita; fino ad arrivare proprio allo stragismo turco. Tutte entità che su settarismi, confessionalismi ed odi interetnici hanno prosperato nei decenni, e costruito le proprie fortune all’ombra dell’aquila a stelle e strisce. E che trovandosi dalla stessa parte della barricata nel conflitto siriano esasperano i loro caratteri autoritari e repressivi contro minoranze ed oppositori. Con il supporto della più bieca geopolitica: quella che, dai freddi tavoli degli strateghi alle carte bollate dei burocrati, è buona solo per tracciare confini e divisioni arbitrarie ed interessate tra stati e nei popoli.

“Stato Assassino!” recava così lo striscione del grande corteo che la sera stessa di sabato ha attraversato la centralissima via Istiklal ad Istanbul, inerpicandosi verso la piazza Taksim: una condanna decisiva, senza appello alla furia fascista di un’entità la cui primordiale ragione d’esistere è quella della sopraffazione da parte del Turco etnico sunnita (altrettanto grottesca trasposizione del maschio bianco protestante ed anglosassone d’oltreoceano) su tutti gli altri popoli, culture e confessioni del martoriato paese mediorientale.

Perché sabato la veste dello Stato ad Ankara era quella di una polizia inquietantemente assente dalla piazza (quando la norma sono gli assalti quotidiani delle forze dell’ordine alle manifestazioni dell’opposizione progressita od il loro confino nei quartieri più remoti delle metropoli) ed apparsa subito dopo  le bombe – ma con l’unico intento di disperdere i soccorritori inermi, finire i feriti a colpi di gas lacrimogeni, o bloccarli agonizzanti a pochi passi dalla salvezza delle ambulanze. Nella cornice di un blocco di stampa e rete trasversale, mirato a bloccare qualsiasi ricostruzione indipendente – e  che vede anche la complicità di entità come Facebook nella rimozione di contenuti scomodi: alla faccia della telefonia 4.5G reclamizzata sui cartelloni di Istanbul e dei cantori della Twitter revolution.

Perché quest’estate la veste dello Stato in Turchia è stata la barbarie dell’eccidio del comizio dell’HDP di Amed e dei militanti internazionalisti di Suruc, del cecchinaggio contro gli scudi umani a Bitlis, dello strazio sui cadaveri di Ekin Van e di Hacı Lokman Birlik, delle sevizie e torture sui prigionieri a Gever, dell’assedio affamatore di Cizre, dei feriti delle YPG consegnati a Nusra, perfino della profanazione a colpi di ruspe e bombardamenti dei cimiteri curdi…E sarà il tentativo di impedire manu militari il voto ai sostenitori dell’HDP tra meno di venti giorni.

Perché negli scorsi mesi la veste dello Stato nella regione è stata quella del Califfato, vera e propria Contra dei giorni nostri; ospitato, curato, nutrito, finanziato, addestrato, fiancheggiato e coperto, con il suo corredo di orrori, dai servizi segreti dei carabinieri di Erdogan oltre ogni possibile omertà. Quegli stessi servizi che, assieme a militari ed oppositori interni del sultano potrebbero puntare a disfarsi della sua ingombrante presenza con uno scenario egiziano.

A tutto questo fa eco nel nostro paese – più che la voce dei diretti interessati – solamente il silenzio, le condoglianze delle istituzioni italiane alle controparti turche o improbabili ricostruzioni volte a individuare questo o quel responsabile della strage di turno. “Versioni ufficiali” riprese a pappagallo da un giornalismo nostrano nel migliore dei casi pigro – se non direttamente complice. Il che è forse anche un lascito dell’annacquamento della memoria storica su quello stragismo di stato che ha colpito e segnato il nostro stesso paese, quando le piazze ribollivano contro un potere altrettanto cieco e corrotto. E che ancor più in questi momenti bisognerebbe riprendere in mano.

E ancora: continua l’opera di avvelenamento semantico del termine “pacifista” da parte dei media mainstream. Un retaggio di fasi di movimento passate (né più né meno dei poliziotti pasoliniani e dei manifestanti “buoni” e “cattivi” ) ma ancora in grado di avvolgere i caduti di Ankara in una melassa micidiale di selfie e buonismo che, invece di aiutare a comprendere, occulta. Che tipo di pace desideravano quei manifestanti? Da (e contro) cosa? E’ ormai ben diverso utilizzare questa parola in Italia, così come quella di “democrazia”, piuttosto che in Kurdistan!

La pace lì è un processo multidimensionale, che passa dal fucile in spalla alle guerrigliere dell’YPJ in Rojava, alla marcia della speranza su Cizre, alla resistenza al genocidio ed alla vittimizzazione degli yezidi sul monte Sinjar, al cessate il fuoco unilaterale dello stesso KCK. Vale a dire la composizione, il rispetto e la valorizzazione delle differenze di chi viva uno stesso territorio, contro la guerra settaria, per far seguire la risposta della democrazia alla domanda curda: autonomia, potere popolare, partecipazione ai processi collettivi e protagonismo di tutte le categorie sociali e di genere, gestione comune di risorse e servizi – dentro, ma immediatamente contro ed oltre i confini di Turchia, Iraq, Iran e Siria.

Mentre con i due scioperi generali di ieri ed oggi continua la Kobane turca dei guerriglieri della pace – l’attesa della scadenza elettorale del primo novembre come punto di tenuta del regime – è dunque nostro compito sostenerli. Riappropriandoci delle parole giuste e vere, imponendo alle controparti il nostro/loro ordine del discorso, farli parlare da tutte le nostre lotte reali. Aiutandoli a resistere un minuto in più degli Stati: la stessa ora in cui il Medio Oriente potrà essere – finalmente – un luogo di vera pace e democrazia.

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