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Lione 3/12: un successo, malgré tout

Riflessioni a caldo sulle ricchezze e i limiti della giornata di mobilitazione franco-italiana contro l’Alta Velocità

La giornata di ieri a Lione ha rappresentato un momento importante per il movimento no tav. Per la prima volta francesi e italiani sono riusciti a costruire un’iniziativa condivisa in una delle due capitali della ipotizzata futura linea ad Alta Velocità. Per essere più precisi dovremmo meglio dire che la giornata si è sviluppata da Torino a Lione, e ritorno, visto che abbiamo impiegato 9 ore per arrivare a destinazione e altre 4 nel tentare di uscire dalla piazza Brotteaux dopo 2 ore di permanenza in uno scenario surreale: blindati e impacchettati seconda la tecnica del “cattling” (che significa: bestiame) da più di 1300 poliziotti (Crs) e gendarmi (gendarmérie) francesi su 1000 manifestanti che eravamo.

Come per innumerevoli altre occasioni il movimento no tav si è guadagnato metro per metro la propria agibilità, abituato a non chiedere e a prendersi quel che è in suo potere come conquista di un operare collettivo: 3 ore fermi alla frontiere, 1 ora ad attendere che all’ultimo bus fosse consentito di partire, un’altra ora bloccat* alle porte di Lione da forze dell’ordine che pretendevano di sottoporci ad un ulteriore controllo (finalizzato in realtà a farci perdere tempo e ritardare il nostro arrivo in città) contro cui ci siamo prontamente ribellati in massa. Ogni momento, ogni ostacolo, per essere superato ha necessitato determinazione e nervi saldi: abbiamo dovuto forzare i toni, tentare di uscire da pullman su cui erevamo sequestrati, minacciare di bloccare l’autostrada, resistere alle spinte dei crs in piazza.

Tra le 400 e le 500 persone, lionesi o giunte da altre località della Francia (importante la presenza de* compagn* che stanno lottando contro il mega-aeroporto a Notre-Dame-des-Landes), ci hanno attesi per oltre 4 ore sotto una pioggia fine ma continua, umida e fastidiosa. L’arrivo è stato festeggiato da fuochi artificiali e grida di giubilo. Numerosi interventi hanno raccontato le ragioni di un’opposizione alle Grandi Opere Inutili che sempre più sembra porsi come viatico di collegamento transnazionale tra singole battaglie accomunate non solo da un generico ambientalismo ma da una critica che è complessiva, di un intero modello di sviluppo e che chiama in causa la destinazione della ricchezza collettiva, del per cosa lavoriamo, cosa produciamo, quali fini informano le nostre azioni collettive. Dietro un’opera di di grandi dimensioni c’è sempre lo stornamento di una quota molto alta della fiscalità generale che viene prelevata e messa in circolo per far lavorare aziende private, amici, clientele che ne trarranno utili considerevoli ma estremamente circoscritti e parziali. La puridecennale battaglia valsusina contro l’Alta Velocità rivendica il diritto ad un controllo e decisione dal basso sul cosa, come, perché e se produrre un’opera, una merce, un servizio… ecc.

Questo era il significato primo di questa giornata di lotta: denunciare questa espropriazione dall’alto, con l’obiettivo di informare il più alto numero di lionesi su quanto tutto questo li concerna. Questo è stato in parte impedito dalla predisposizione di un dispositivo di controllo poliziesco sofisticato ed efficiente (ci torniamo sopra più avanti). Ciò nonostante, l’impiego di tanti uomini, l’utilizzo di sofisticate e costose tecnologie, la paralisi di un pezzo di città, il costo complessivo di una messa in scena così muscolare della capacità di prevenzione e controllo dello Stato francese indicano comunque a quelle autorità e a quel pezzo di città che ne è stato testimone che l’opposizione è forte, radicata, che si pone come quindi come fatto politico non minore.

Il buon lavoro lavoro fatto insieme e il risultato comunque importante della partecipazione (600 persone dall’Italia in un lunedì lavorativo, centinaia in Francia dove la questione è poco conosciuta e agli inizi) non ci esimono dall’avanzare alcune critiche – ci auguriamo costruttive – sull’operato e le modalità d’azione delle componenti d’Oltralpe (avanziamo queste critiche a quella che si poteva cogliere come risultante dell’agire collettivo nella piazza, non a singole realtà di compagn*, sapendo quanto sforzo e fatica hanno accompagnato questo mese e mezzo di costruzione dell’iniziativa). Buona parte del tempo ci siamo trovati alle prese con iniziative aleatorie, scelte impulsive, comportamenti incomprensibili sul come rapportarsi alla forza della controparte. Sicuramente una difficoltà di comunicazione tra modi, forme e tradizioni diverse ma in molti casi anche un atteggiamento esplicitamente auto-centrato, ideologico, poco abituato a misurarsi con composizioni della piazza differenti da quelle dei consueti milieux militanti (con le loro fisime e fissazioni che non sempre sono centrali e importanti rispetto al contesto e agli obiettivi della giornata). A nostro modo di vedere queste mancanze sono sintomatiche di un dibattere “povero” sul nodo centrale dell’agire politico e delle lotte: il come fare insieme. Problema di organizzazione e di soggettività. Al rifiuto a-prioristico, e secondo noi ideologico, di misurarsi su questo problema, spesso trincerato dietro un “nessuno può giudicare se un’azione è giusta o sbagliata” oppure “ognuno è libero di fare quello che vuole” corrisponde una mancata assunzione di responsabilità sull’indire una scadenza, gestirla, portarla a termine. Ad un certo punto la responsabilità sulla sorte dei lionesi in piazza è stata scaricata sui no tav italiani, dai quali non si poteva pretendere una disposizione illimitata di tempo ed energie (proprio per la composizione media di quei pullman). La maggior parte di noi, insieme a tanti valligiani e compagn* di Milano sono partiti con gli ultimi 2 pullman, spinti a forza e scortati fino al casello autostradale posto a decine di chilometri da Lione. Se avanziamo queste critiche-riflessioni non è per porci su un gradino più alto o perché pretendiamo di dare lezioni ai cugini d’Oltralpe ma perché nella sua lunga e travagliata storia il movimento no tav è risucito a comporre un modo di fare, decidere e stare insieme che funziona e che nelle pur evidenti differenze ha costruito un’unità di fondo sul metodo che ha dato risultati importanti e ci ha permesso e ci consente tuttora di durare di fronte ad un nemico più potente e dotato di ben altri mezzi. Per quanto poco possa sembrare, è con estrema umiltà che esterniamo queste riflessioni. Perché crediamo che degli embrioni di lavoro comune possibile siano ben presenti e suscettibili di sviluppo.

Un’ultima osservazione la vorremmo invece porre sull’operato della polizia francese. Il destinatario è qui invece più interno al movimento e, estensivamente, nazionale. Molte osservazioni e sacrosante critiche sono state avanzate sul modo di operare delle forze dell’ordine. Giustamente denunciamo l’uso un po’ troppo ravvicinato e generoso di spray al peperoncino e le dimensioni liberticide di quel confinamento. Si rischia però di non cogliere l’aspetto a nostro avviso più importante di quel modo di operare. A ben vedere, la polizia francese si muove più efficacemente su un piano di prevenzione e controllo-contenimento. Non intendiamo provocare quando diciamo che, in fondo in fondo (ma forse poi neanche così tanto in fondo), questa efficienza e il desiderata di tanta nostra sinistra italica. Una polizia che non sporca i marciapiedi di sangue, non lascia lividi, non carica indiscriminatamente una piazza ma la controlla in maniera esemplare, totale. Chiedere il numero d’identificazione degli agenti sulla casacca o il cappello può essere una battaglia importante ma non ci risolverà il problema del come essere noi più forti, furbi, efficaci di quel dispositivo di controllo. Le forze di polizia francesi sono più sviluppate, democratiche ed efficienti di quelle italiane. È un’efficienza che parte dalla dimensione di grandeur incorporata nella tecnologia nucleare (leggere in proposito certi commenti sul media mainstream francese) e che arriva all’educazione del poliziotto che con molta gentilezza ti risponde che con te non possono parlare, eseguono solo ordini e poi ti spruzza il peperoncino in faccia (ma solo se resisti oltremodo alle sue disposizioni).

Il nostro problema è semmai come costruiamo le condizioni per rompere questo meccanismo. Noi vogliamo resistere oltremodo. Questo vuol dire attrezzarci, essere più intelligenti ed efficaci della nostra controparte, predisporne le condizioni di possibilità, svilupparle e renderle più efficienti. Per fare tutto questo dobbiamo essere allora pronti anche ad abbandonare certe fissazioni inutili, identità puriste, tradizioni dure a morire ma anche certe imperiture illusioni circa la riformabilità e la democratizzazione delle forze dell’ordine. Più democratiche e più trasparenti nelle loro procedure, le forze dell’ordine non smetteranno di essere tali. Saranno solo più capaci loro e più totale la nostra impotenza.

Siamo sicuri di volere e faticare tanto per questo? Non c’interessa forse più intensamente inventare e costruire mondi nuovi?

 

La redazione di Infoaut di ritorno da Lione

 

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