Lo spazio pubblico dell’esercito delle spugnette
In questi ultime settimane sta avendo una nuova visibilità il fenomeno da tempo latente dei vari Retake, #nessunotocchimilano e comitati anti graffiti. In sostanza dei gruppi di “cittadini” contro “il degrado” decidono d’incontrarsi per cancellare scritte sui muri e levare manifesti.
Sono già state fatte notare le convergenze d’interessi tra palazzinari e blogger che fanno schifo come da sempre è evidente che la figura dei cittadini-indignati-contro-il-degrado – che effettivamente si materializzi o che resti un riverbero da social network delle istigazioni giornalistiche – è cavalcata da interessi tutt’altro che spontanei. Il dato nuovo è che tali manifestazioni trovano ormai uno spazio talmente ampio sui media che i politici cominciano esplicitamente a tifare degrado o addirittura a creaselo da solo. Letteralmente se pensiamo al caso grottesco, recentemente venuto alla luce, di una consigliera comunale romana di Forza Italia beccata a seminare siringhe davanti alle scuole per simulare il degrado nel suo quartiere. Geni del crimine a parte, è da sottolineare anche come tali gruppi siano legati in maniera più o meno organica al vasto mondo dell’associazionismo democratico. Si pensi che, in veste di volontaria, a capitanare i retakers in lotta contro il murales di Pao (cancellato una decina di giorni fa dagli spugnettari tra lo sdegno dei genitori presenti) c’era niente di meno che la spin doctor e docente di marketing Paola Stringa, direttamente dall’ufficio stampa del Partito democratico Lombardo.
Senza dilungarci in dietrologie sui Mangiafuoco di turno, è sempre importante ragionare su chi lancia quali sassi nello stagno massmediatico e su chi orienta o allarga i cerchi concentrici che ne seguono. La chiave di lettura dell’automatismo cittadinista è riduttrice perché di spontaneo nei “movimenti” che mandano in un brodo di giuggiole commentatori di ogni risma c’è poco o niente.
Ciò non vuol dire che a questi fuochi fatui nel cimitero della politica istituzionale non corrisponda un’attivazione sociale di soggetti in carne ed ossa. È un’attivazione puramente reazionaria ma purtroppo reale, quella dei nostri spugnettari – “Una delle giornate più commoventi della mia vita” ha dichiarato Roberto “Mastrolindo” Vecchioni durante la contro manifestazione milanese – che anzi dovrebbero ringraziare “i Black bloc” di regalagli la sola occasione di un’esistenza politica attiva che vada al di là del proprio io votante. Ma blocchi neri a parte nei vari retakers la formula è la stessa, si tratta d’indignazione che si materializza nella forma dell’odio per il povero, per il rom, sempre e solo per chi è in basso. Non per niente quelle dei pulitori sono le sole “piazze” che la classe politica responsabile di quel deserto chiamato Italia 2015 può attraversare senza prendersi uova e insulti.
Il dato nuovo da cogliere è comunque questa capacità delle istituzioni di attivare sempre più rapidamente delle risposte “di massa” che recuperano la forza d’impatto della violenza cambiandole di segno. Intanto per costruire macchine da guerra che sappiano contrastare questa dinamica sul piano della rappresentazione del conflitto invece di marciare sulla testa concependo la questione dell’immaginario come depotenziamento dei momenti di piazza che li riduce alla loro dimensione puramente performativa. Ma soprattutto per fare i conti col precipitare di polarizzazioni sempre più accentuate all’interno della società che accompagnano inevitabilmente l’impoverimento generale che caratterizza la fase in cui ci troviamo. È per questo che se non si unisce al ragionamento sul nodo del consenso una riflessione sui soggetti si finisce per annacquare il proprio agire politico nell’immagine di un'”opinione pubblica” indistinta e fuori tempo massimo. Oppure si rifiuta di calcolarne le conseguenze nascondendosi dietro la finzione di una plebe per definizione inafferrabile e di cui si può quindi tranquillamente pretendere che la coscienza sensibile coincida automaticamente con gli afasici angoli visivi militanti.
In generale l’attivarsi dei comitati retakers indica la tendenza ad accettare l’abbandono dei territori da parte delle istituzioni come elemento strutturale e che quindi chiama “il cittadino” a sopperire alle mancanze fornendo gratis i servizi che l’amministrazione ha tagliato. È una sorta di negativo della retorica del bene comune, che ci conferma che la riappropriazione di quello spazio lasciato tra pubblico e privato è sempre suscettibile di essere riportato nell’alveo della compatibilità, dello sfruttamento e della discriminazione. “A Roma un Sabato per il bene comune pulendo la zona dell’Acquedotto Alessandrino e coinvolgendo alcuni immigrati REGOLARI ben integrati” cinguettava sabato scorso dall’iniziativa il consigliere comunale Luca Airoli.
Infine è da notare poi l’inquietante riappropriazione semantica dei comitati che riciclano slogan dei movimenti – il retake non fa forse eco al familiare “riprendiamoci la città”? – per schiacciare la giusta voglia di riprendersi il territorio su una dimensione che invece di creare contro-poteri si pone esclusivamente come complemento legittimante di quelli esistenti.
Nel video di lancio di Retake Milano vediamo un finto “vandalo” andare in giro a sporcare con la bomboletta passeggini, macchine ferme al semaforo o borse dei passanti che reagiscono con inseguimenti e insulti. Il cortometraggio chiosa con un “Perché non ti arrabbi quando succede alla tua città?”. C’è, insomma, in questa visione di cosa vuol dire abitare un quartiere una sorta di concezione aberrante che pretende di ridurre la città alla sommatoria delle varie proprietà private dei residenti (va da sé che chi di proprietà non ne ha ne è quindi automaticamente escluso). Non le strade e le piazze come territorio che riflette le tensioni da cui è attraversato ma come una sorta di estensione ad libitum di uno spazio domestico idealmente liscio. Una concezione che va ben al di là degli sparuti gruppi anti-graffittari e che vorrebbe normare la molteplicità che costituisce la natura stessa dello spazio pubblico per ridurla alla tristezza asettica del proprio salone di casa.
Agli spazi che riflettono i sogni smart di qualche cittadino frustrato continuiamo a preferire i territori come specchio delle contraddizioni sociali…
Disto
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