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Mezzogiorno di Fuoco

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Immagini di tessere elettorali strappate, manifesti pentastellati dati alle fiamme e parlamentari invitati alle dimissioni in Salento.

Istantanee pesanti, che seguono di meno di due mesi quelle della deputata grillina De Giorgi, umiliata dalla piazza tarantina e costretta a scappare da essa scortata dalla polizia, dopo aver svenduto la sua città al mostro cancerogeno e lavorista dell’ILVA. Niente male per un partito definito anche dall’estero “populista” e che individua la propria soggettività nei “cittadini”.

Come è possibile – si chiede Marco Potì, sindaco di Melendugno – che “Il ministro Salvini, che fa parte di questo governo ha preso l’impegno di non fare entrare le navi nei porti italiani e lo ha mantenuto violando Trattato di Dublino, e in quel caso non ci sono soldi ma vite umane in gioco, mentre Di Maio e Conte non hanno il coraggio e la volontà di fermare quest’opera, definita giustamente una follia ingegneristica”?

E’ possibile quando un movimento che ripudia forme di organizzazione territoriale solide, che non traccia una chiara distinzione tra amico e nemico, che non forgia ed emancipa le proprie donne ed i propri uomini nel conflitto dialettico e materiale tra gli opposti interessi di classe (anzi, cerca astrattamente di comporlo in una comunità nazionale organica) arriva nella scatoletta di tonno del parlamento. Dove non si può sostenere tutto e il contrario di tutto e dove, senza simili anticorpi (e con una delega che diviene separatezza), si è nella posizione del contenuto – anziché dell’apriscatole di quei vincoli stratificati in anni dai poteri nazionali e sovranazionali del Capitale per rendere inappellabile il proprio dominio.

C’è stato chi ha provato a fare appello allo “spirito originario” del Movimento Cinque Stelle. Ma se ai suoi inizi questo poteva alludere a una precipitazione progressista (complice una fase italiana e globale di avanzamento delle lotte) oggi è sepolto – dopo essere stato soffocato dall’opportunismo e dal qualunquismo politico, marcito assieme a Grillo e morto assieme a Casaleggio.

Dopo la questione della giustizia emersa con il caso Riace e le ruberie della Lega, viene a franare il secondo pilastro su cui si era costruita la grande narrazione a cinque stelle: quella dell’ambiente e dell’opposizione alle grandi opere. Portandosi dietro, rovinosamente, anche una questione meridionale che vede i territori pugliesi (e non solo, vedere le promesse su MUOS e terra dei fuochi) confermati nel ruolo di luoghi di estrazione di profitti e devastazione e saccheggio capitalista.

Non è secondario peraltro che la ministra pugliese Lezzi sia stata dichiarata persona non grata dal movimento No TAP; e la sua spocchia davanti ad un simile tracollo non fa che rimarcare la distanza crescente tra la nuova casta a cinque stelle ed i territori. Confermata anche dalla disastrosa parabola della (non) amministrazione romana, ridotta a governo della miseria, cane da guardia di una legalità sempre più disumana e classista e becchino di una capitale sconvolta dall’emergenza ambientale.

Ora non rimane che la colonna portante, il tema su cui si gioca la credibilità del cinque stelle di governo e al quale tutto è stato subordinato nella retorica pentastellata dei sacrifici indispensabili: la battaglia sul reddito di cittadinanza. Ma anche se questo arrivasse, al netto di segmentazioni, condizionalità e necessità elettorali, potrebbe non bastare. Dopotutto anche gli 80 euro puntellarono il governo Renzi nel 2014 per fargli passare il varco delle Europee: ma meno di due anni dopo arrivò il referendum che lo costrinse a sloggiare da Palazzo Chigi. Ora la delusione della “democrazia diretta” in salsa grillina e le schede elettorali date alle fiamme dalle popolazioni di Taranto e del Salento ci dicono che gran parte della fiducia nei pentastellati è svanita, e non è detto che il trend si invertirà facilmente..

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pubblicato il in Editorialidi redazioneTag correlati:

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