Palestina: senza giustizia nessuna pace
Attacchi dei coloni, chiusure militari e arresti nella West Bank. Bombe su Gaza, scontri che si moltiplicano e decine e decine di morti.
In Palestina c’è moltissima paura, ma crescono anche la rabbia e la lotta e, tra tante difficoltà, si fa strada la speranza di una terza Intifada.
La lotta nasce e si articola nella quotidianità, nelle città e nei campi profughi, nelle prigioni. In quella resistenza quotidiana che assume forme diverse: sassi scagliati dai bambini contro soldati e carri armati, giovani che attaccano con le molotov le torri militari, il muro dell’Apartheid. La resistenza si afferma anche nelle prigioni, nel determinato sciopero della fame che ha trovato la solidarietà attiva in tutti i territori palestinesi e in diaspora, inserendosi appieno nella lotta di liberazione nazionale. E’ la stessa lotta combattuta con i lanci di razzi dalla Striscia di Gaza verso il cosiddetto “Israele”…i territori palestinesi occupati nel lontano 1948.
Sono ormai 66 anni che la Palestina resiste a diverse intensità. Formalmente ci sono state una prima ed una seconda Intifada, datate storicamente, ma in realtà in quei territori non si è mai smesso di lottare, l’Intifada non si è mai arrestata.
Chi come i media mainstream e i vari politici di turno sostiene che la causa dell’attuale aggressione sarebbero i razzi scagliati da “gruppi terroristici” – in primis Hamas – nega la realtà quotidiana palestinese: così come il lancio di razzi provoca l’assassina reazione israeliana, una qualsiasi manifestazione è repressa con morti e feriti, far parte di un collettivo universitario conduce all’arresto, ogni forma di azione e di resistenza – sia essa politica o militare – porta a reazioni violente e distruttive da parte dello stato colonialista e razzista di Tel Aviv.
Ma il popolo palestinese, di fronte alle continue aggressioni sioniste e agli inutili interventi della comunità internazionale in cerca del mantenimento dello status quo, sa bene che non c’è nessuna “pace da costruire”, ma una lotta da continuare fino alla liberazione.
La resistenza palestinese ha scelto, ha iniziato a lottare 66 anni fa e continuerà a battersi – politicamente, culturalmente e militarmente – fino all’autodeterminazione e al diritto al ritorno.
La lotta palestinese si batte anche contro le belle parole di Netanyahu e del sionismo istituzionale che condannano “tutte le violenze”, non solo degli arabi, ma anche quelle dei “coloni cattivi”. Questa lotta è una sollevazione che va a combattere lo stato ebraico: uno stato fondato sul razzismo, sulla supremazia della religione ebraica che non accetta arabi al suo interno. Uno stato che, avallato dalle potenze occidentali, è nato come “focolaio ebraico”, che promuove il razzismo e la distruzione delle terre arabe, uno stato in cui i “coloni cattivi”, gli stessi che picchiano a morte giovani palestinesi, sono parte integrante e naturale espressione.
Non si tratta solo di combattere i “coloni cattivi”, di rimanere inorriditi di fronte alle immagini come quella del giovane Abu Khdeir, vittima della violenza colona. Non si tratta solo di discuterne a livello internazionale e di condannarne le aggressioni, si tratta invece di combattere uno stato razzista, violento, nato su basi etniche.
E, ancora una volta, soprattutto nei momenti come questo di fortissima tensione, bisogna interrogarsi sulla fattibilità della soluzione “due popoli due stati”: da una parte lo stato sionista, le sue aggressioni e la continua colonizzazione dei territori “liberi”, dall’altra una Palestina che resiste, fatta di milioni di profughi che non si daranno mai pace fino al momento in cui torneranno nelle loro case, all’insegna di uno stato unico, in tutta la Palestina, dal fiume al mare, in cui tutti possano tornare e vivere.
Altrimenti, una volta arrestata questa aggressione e questa spirale di violenze, quando un’altra aggressione sionista verrà, ancora la resistenza risponderà, e la pace sarà sempre più lontana.
Perché una pace senza giustizia non sarà mai possibile.
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