Qualche appunto sulle elezioni in Turchia
Si sono conclusi ieri in serata gli scrutini delle elezioni politiche turche. A dispetto delle attese abbiamo assistito a un grosso spostamento di equilibri rispetto alle elezioni del 7 giugno scorso. Il partito del presidente Erdogan, l’AKP, riguadagna la maggioranza assoluta drenando voti a destra, in particolare ai nazionalisti del MHP, e ottenendo così un governo monocolore. Il contenitore politico kurdo che aveva sfondato alle scorse elezioni, l’HDP, tiene botta nelle regioni orientali ma paga i numerosi brogli ai seggi e la mancanza di una reale campagna elettorale nelle zone turcofone (campagna bloccata a colpi di bomba ad Ankara ad inizio ottobre).
Questa tornata elettorale rappresenta, come detto più volte, un momento importante di svolta. Senza pretesa di esaustività, qualche ipotesi di lettura per ragionare sui processi e le tendenze che si sono cristallizzate nel voto di ieri.
Primo. La conferma della guerra/crisi come strumento principale di governo, capace di ricentrare in senso sistemico ogni progetto concreto di emancipazione. Sono stati tre mesi di guerra su tutti fronti contro il movimento kurdo per cercare di imbrigliare i processi messi in moto dal movimento su un piano esclusivamente militare: bombardamenti e armi chimiche contro il PKK al confine con l’Iraq, attacchi delle forze speciali durante i coprifuoco nei quartieri autonomi del Bakur, bombe di Stato a Ankara e Suruc fino ad arrivare alle recenti provocazioni delle truppe turche a Gre Spi, sul confine con il Rojava. La declinazione interna del paradigma della guerra è il “terrorismo”, bersaglio discorsivo e militare – e quindi radicalmente politico – che è stato il perno elettorale di Erdogan. Guerra, crisi, paura della guerra, paura della crisi si confondono e non solo hanno spostato voti verso il centro ma hanno anche costretto il movimento di liberazione kurdo nell’emergenzialità creata dalla retate e dagli omicidi della polizia.
Secondo. La guerra crisi come possibilità. Il vuoto di potere e il caos nella zona settentrionale della Siria come la crisi politica turca di inizio estate hanno aperto spazi di sperimentazione e auto-governo colti con lucidità dal movimento kurdo. Si tratta, come è ovvio, di processi che non vivono su spazi piani e tempi lineari ma piuttosto di accelerazioni e ritirate tattiche. E soprattutto di sedimentazione, ossia di una comunità resistente, fatta di legami densi e politicità diffusa orientata con chiarezza strategica dal Partito. La rivoluzione, insomma, come momento lungo. Il progetto di confederalismo democratico era solo nella testa di Ocalan fino a una decina di anni fa, oggi è realtà in Rojava e ha aperto piste importanti nei quartieri del Bakur durante quest’estate. Alcune delle zone che avevano dichiarato l’auto-governo hanno smontato le barricate ed è ancora da capire quali saranno le prossime mosse del governo, ormai forte della maggioranza assoluta; ma la breccia, anche se stretta, resta aperta. I prossimi mesi saranno decisivi.
Terzo. La questione kurda come questione medio-orientale. Le elezioni del 7 giugno arrivavano a pochi mesi dalla liberazione di Kobane. Il potente immaginario generato da quell’esperienza ha alimentato il cambiamento come orizzonte possibile portando voti all’HDP. Non è un caso che Barzani, alleato di Erdogan nel Kurdistan iracheno, abbia fatto di tutto per evitare che la battaglia per la conquista di Shengal cominciasse in periodo elettorale, arrivando a tagliare la strada tra il Rojava e Sinjar per impedire alle forze del movimento kurdo di passare. Le elezioni turche avranno ovviamente anche la loro ripercussione direttamente sui cantoni liberati nel Nord della Siria, dove sono stati segnalati nuovi bombardamenti nella giornata di oggi sempre nella zona di Gre Spi.
Quarto. La questione dell’islam politico. Le insurrezioni del 2011 (dette “primavere arabe”) avrebbero potuto rappresentare uno scarto netto rispetto alla sequenza “guerra dei mondi” cominciata nel 2001, dando l’avvio a un nuovo antagonismo secolare fatto di contaminazioni coi movimenti sociali – la resistenza di Gezi è stata la ricca traduzione di quello spazio politico possibile in Turchia. Una breve sequenza che sembra invece oggi piuttosto rappresentare una parentesi, vista la forza di attrazione che una certa declinazione politica dell’Islam esercita su larghe fette di popolazione musulmana nel mondo. In questo senso sono molto significative le congratulazioni che Hamas ha ufficialmente inviato ad Erdogan per i risultati delle elezioni immediatamente dopo la pubblicazione dei risultati. Si tratta di un nodo complesso ma urgente che bisogna affrontare dalla giusta prospettiva. Non da quella imbelle di un’immaginario “scontro di civiltà” – sono d’altronde solo altri musulmani che stanno concretamente combattendo lo Stato Islamico come in Rojava – ma da quella della lunga crisi di egemonia dei movimenti rivoluzionari. Non è un caso che in una delle rare zone in cui questi movimenti esistono, parlano alle masse a partire dalle proprie condizioni materiali e offrono concrete prospettive di riscatto (stiamo parlando proprio del Kurdistan), la guerra di religione si rivela per il fantoccio che è effettivamente.
Istanbul, 2 novembre 2015
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