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Quando Millennium People è sotto casa

Alzi la mano chi non si è esaltato alle gesta degli abitanti di Chelsea Marina, quel ceto medio in rivolta descritto dalla magistrale penna di Ballard. E quante foto e commenti entusiasmanti circolano nei social network sui manifestanti in Ucraina che caricano la polizia con le ruspe, incuranti della presenza al loro interno di neo-nazisti o dell’abbattimento della statua di Lenin. Ancora, non è almeno dall’inizio degli anni ’90 che si versano fiumi di inchiostro per riempire libri e documenti sulla necessità di organizzare il “popolo delle partite Iva”, i lavoratori autonomi e il “quinto stato”, combattendo alacremente con quella sinistra che continua a vederli come mera riproduzione di una piccola borghesia parassitaria e fatta di evasori? Improvvisamente, però, quando il verbo si fa carne, quando i soggetti concreti sbucano fuori dai romanzi e irrompono nella realtà, quando le ambiguità e le contraddizioni viaggiano per migliaia di kilometri e ti piombano sotto casa, quando il quinto stato cessa di essere una figura retorica idealizzata sui siti di movimento e diventa un artigiano incazzato o un piccolo imprenditore che non si vuole più suicidare, ecco che improvvisamente tutto cambia: “all’armi son fascisti!”. Guai a immischiarsi o anche solo provare a capire, sono di destra e reazionari, saltano addirittura fuori piani di golpe militare. E così tutti ad accodarsi al Partito di Repubblica e ai benpensanti di sinistra, fosse anche di quella radicale, a cui piacciono le rivolte senza rivoltosi, le rivoluzioni piene di educazione e buoni sentimenti. Era successa la stessa cosa quasi due anni fa, quando i “forconi”, quelli originali, bloccarono per settimane la Sicilia: sinistra istituzionale e buona parte dei movimenti si compattarono nella denuncia dietrologica, in quel caso condita dall’etnicizzazione della protesta (“è diretta dalla mafia”). Noi fummo tra le poche voci fuori dal coro, andammo a fare inchiesta militante e costruimmo rapporti, capimmo che nelle pieghe dell’ambivalenza si trattava di una composizione di piccoli produttori che – dietro all’etichetta formale di “autonomia” – vivevano in realtà condizioni di dipendenza e sfruttamento.

É lo stesso atteggiamento che ci ha guidati nelle scorse settimane e che ci ha accompagnato in alcune piazze del #9d. Siamo andati lì innanzitutto per comprendere, il che non ha nulla a che fare con il sociologismo – l’atteggiamento di chi oggi scatta una foto del reale e lo prende come dato di natura, quindi se un lavoratore ha la bandiera italiana è un fascista. La comprensione per noi è sempre legata alla parzialità, significa costruire armi per migliorare o modificare la pratica, intessere relazioni dentro la composizione sociale. E qui abbiamo trovato (almeno in alcune città, innanzitutto a Torino) quello che avevamo scorto già nelle settimane scorse: un ceto medio perlopiù tradizionale (artigiani, piccoli commercianti, gestori di bancarelle ai mercati, lavoratori autonomi in buona parte di prima generazione, ecc.), duramente colpito dalle misure di austerity, che ha paura di perdere quello che ha o che ancora gli rimane e cerca disperatamente di difendersi. Al loro fianco, in una miscela ampia e variegata, altri settori di classe e popolari, compresi studenti, precari e giovani proletari; significativa la presenza degli ultras, in alcune piazze anche migranti di prima e di seconda generazione, non di radio con bandiere tricolori. Ovviamente lo scenario cambia da regione a regione: non molto dissimile da quella del Piemonte la partecipazione nelle città liguri, nel nord-est i blocchi sono stati fatti da autotrasportatori e quella base sociale che a partire dagli anni Novanta ha guardato alla Lega, a Bologna la protesta è stata guidata dall’associazione dei familiari di artigiani e piccoli imprenditori che si sono suicidati, a Roma più marcata è la presenza fascista, ridimensionato l’impatto in Sicilia. La pratica principale è quella del blocco della circolazione, non ci si sottrae al fronteggiamento con la polizia se questa impedisce di raggiungere l’obiettivo prefissato (i palazzi del potere), uso intensivo dei social network (da cui la mobilitazione è nata), l’odio è rivolto innanzitutto contro Equitalia e la casta, identificando nella politica un blocco compatto di interessi contrapposto a quelli di chi lavora.

Oltre al dato delle città, va sottolineato che in molti paesi e periferie urbane da giorni non si parla d’altro, e in tanti piccoli luoghi negozi ed esercizi commerciali sono rimasti chiusi. Tutti improvvisamente fascisti, oppure la materialità delle corde toccate ha consentito una diffusione capillare della mobilitazione? Sia chiaro: abbiamo visto anche fascisti e saluti romani, ma non sono stati i fascisti – salvo forse in situazioni specifiche – a determinare l’organizzazione. Sono andati al traino. Certo, se si continuerà ad etichettare questo pezzo di composizione sociale come reazionario, prima o poi la profezia si autoavvererà: la storia, per chi vi è così affezionato da ripetere le solite categorie in modo atemporale, dovrebbe pur insegnarci qualcosa. Non manca chi fa affidamento alla polizia, proponendo (come avviene a Roma) di portare thermos di tè per scaldarsi insieme a celerini e carabinieri. Ma ve le ricordate durante l’Onda le discussioni sulla polizia, i cori rivolti ai caschi blu “noi lottiamo per i vostri figli”, o le immagini dalla Spagna o dalla Germania (false, dunque frutto di desiderio) dei poliziotti che si tolgono i caschi per unirsi ai manifestanti? Nelle piazze e sulle strade bloccate sventolavano la bandiera italiana, in Ucraina sventola la bandiera europea, fascisti e reazionari ci sono da una parte e dall’altra (a Kiev alcuni gruppi neo-nazisti hanno assaltato le sedi dei compagni, eppure la distanza di sicurezza esotica permette a vari siti di movimento di entusiasmarsi per l’ennesima rivolta dei propri sogni). Sia chiaro: non amiamo il tricolore durante i cortei, ma non ci piaceva nemmeno lo sventolio di migliaia di bandiere americane nelle manifestazioni dei latinos quando, nel 2006, bloccarono per mesi il paese contro la legge sull’immigrazione. Forse però quelle bandiere sono almeno in una certa misura – cioè per coloro che non fanno parte delle minoranze ideologizzate e per ora piuttosto marginali del #9d – svuotate di significato.

A noi sembra, piuttosto, che siamo in presenza di ampi strati sociali che sono stufi di pagare la crisi. Per difendersi dall’impoverimento scaricano spesso le contraddizioni su chi gli sta vicino, rischiano di identificare il nemico non solo in alto (la casta) ma anche in basso (gli immigrati), pensano di poter ritornare ai privilegi di un ceto medio definitivamente scomparso e proletarizzato. Ma i proletari non hanno ideali da realizzare, ci ammoniva Marx. E Romano Alquati ci insegnava che quando il ceto medio va in crisi di mediazione si aprono grandi possibilità di trasformazione radicale. Per coglierle e provare a indirizzarle, però, bisogna starci dentro, sporcarsi le mani, essere pronti a rivedere i propri schemi di lettura politica. La ricomposizione non si dà mai perché i singoli segmenti sociali la vogliono di comune accordo, ma perché comprendono che per ottenere un miglioramento delle proprie specifiche condizioni di vita, perfino delle proprie istanze corporative, devono mescolarsi con altri soggetti.

Allora, invece di lamentarsi perché chi si ribella non lo fa “a sinistra” (sarebbe meno inquietante se al posto di qualche politico rampante di Fratelli d’Italia ci fossero stati i renziani o i vendoliani amici di Riva?), sarebbe meglio iniziare a prendere atto che quella storia, piaccia o non piaccia, è finita. E soprattutto che, al di fuori delle ambiguità sociali (anche di quelle più urticanti, di cui il #9d è gravido), c’è solo spazio per le identità di piccoli gruppi marginali. Ripetiamo, a scanso di equivoci, che di merda ne abbiamo vista tanta: militanti fascisti, qualche politico in passerella, piccoli sindacati corporativi e reazionari. E chissà quanta altra merda vedremo, con l’intensificarsi della crisi. Benvenuti nel deserto del reale! Ma è qui, in questo deserto, che dobbiamo organizzarci. Altrimenti restano le piccola oasi in cui ci si rassicura a vicenda, discutendo della composizione sociale che vorremmo, dandole bei nomi di fantasia, consolandoci con i sogni di rivoluzioni patinate. Ma come tutte le oasi, non sono niente altro che un miraggio. E per citare Huey P. Newton, leader delle Pantere Nere, uno che di ambiguità della composizione sociale se ne intendeva: “Il deserto non è un circolo. É una spirale. Quando siamo passati attraverso il deserto, niente sarà più lo stesso”.

 

Panta rhei os potamòs

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