Se manca il respiro manca un mondo in cui agire
Siria, provincia di Idlib. Le immagini del bombardamento, presumibilmente con armi chimiche, che lasciano esanimi una serie di corpi in fila fanno il giro del mondo. 74 morti. Ma le cifre sono approssimative. I superstiti o forse i condannati dall’attacco boccheggiano nei filmati, senza respiro. Le immagini colonizzano i sensi, forse per un’associazione straniante. È che sembrano come pesci fuori dal mare.
In questa associazione traumatica sta una parte di verità di quanto si è srotolato nella catena di eventi e di realtà mediatizzata e parallela prodotta da un fatto infame di guerra. Quel campo, abitato anche da noi, fatto di telegiornali e condivisioni sui social media condite dall’indignazione per combattere l’orrore, sorge e si impone alla nostra attenzione anche perché strappato al suo mondo. Pesci senza un mare. Strappato e separato da quella guerra, che resta una sempre una guerra infame, dove si muore ogni giorno, prima e dopo Idlib, a pochi chilometri dalla linea del fronte delle forze siriane democratiche che in armi attaccano Isis, in una provincia controllata dalle milizie teocratiche affiliate ad Al Qaeda. Il nostro sdegno assume quasi i connotati sgradevoli di un antidoto alla verità della guerra. La commozione davanti a un fatto straziante ed eccezionale non basta a rimuovere il permanere di un flusso in cui la morte piombava, piomba e piomberà sempre su chi la guerra in quei territori disgraziati la sta subendo. Casa loro è dove i civili muoiono in una guerra non loro.
Davanti a questo non basta nemmeno la scienza della politica o il gioco della geopolitica che prova a decifrare di continuo uno scacchiere variabile, collezionando imputati da restituire al campo del bene e del male; al presunto campo imperialista e a quello antimperialista, delle vittime di Assad o di Isis, del ruolo della Russia o degli Stati Uniti. Il rincorrersi di notizie contrastanti e contradditorie sull’attacco a Idlib ha inabissato anche le speranze di chi, inseguendo la chimera di uno scontro tra mondi contrapposti, cerca ancora una parte da tifare per ritrovare una qualche sicurezza. No, non abbiamo bisogno di questo genere di sicurezze perché non abbiamo alleati possibili in quel genere di conflitto. Laddove, pur nella sua straordinaria esperienza di difesa e contrattacco, anche la rivoluzione confederale democratica è costretta all’angolo dagli equilibri delle forze globali, occorre coltivare la nostra ostilità primariamente a un conflitto per il dominio che sta ora cortocircuitando in Siria. Chi organizza il nuovo disordine globale?
Abbiamo allora bisogno di sottrarci a quell’esperienza virtuale della guerra che ci consegna all’impotenza dell’indignazione, e abbiamo altrettanto bisogno di salvare una parte dell’orrore intuito per renderlo forza motrice di una nostra ricerca della verità contro quella guerra. Abbiamo bisogno, insomma, di un nostro mondo nel quale agire, contro il quale agire, per non essere satelliti di accadimenti voluti da altri e che continuiamo a subire nell’imbarazzo del dover soffrire per procura. Abbiamo bisogno di guardare a quella scala di dominio sulla nostra realtà che decide, tramite la guerra, anche di quel mondo al quale le immagini terrificanti impresse nei nostri sguardi sono state strappate. Chi sta organizzando il disordine? Contro la spettacolarizzazione dell’orrore e contro l’impotenza dell’essere spettatori dobbiamo riconoscere un ordine contro il quale poterci schierare. È la cifra di una nostra verità di parte, non negoziabile. Il 10 aprile i ministri degli esteri del G7 saranno a Lucca per discutere della loro guerra sul nostro mondo. Si tratta di una parte degli attori che, dagli USA ai paesi UE, si gioca la partita in Siria e la gestione dei suoi effetti. La strage in Siria non è una realtà fluttuante sugli schermi dei nostri smartphone e sui televisori. Abbiamo la possibilità di collegare un accadimento a delle cause, e abbiamo un mondo entro il quale muoverci per provare a farlo… per questo saremo a Lucca contro il G7, fosse anche solo per rifiutare lo smarrimento al quale il loro orrore ci vorrebbe condannare.
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