Sessismi bipartisan
Ci sono poche parole da spendere su modi e contenuti dell’attacco sessista a Boldrini da parte del M5S. I fatti sono noti: l’esplicita evocazione, la provocazione allusiva del sottosuolo di immaginari e pulsioni misogine e discriminatorie che nutre l’universo soggettivo e sociale dell’elettorato grillino (e certo non solo di quello!) scatena una fra le peggiori performance di violenza reazionaria della base del movimento. Come gettare un fiammifero in una polveriera. A nulla vale ritrarre la mano e dar prova di buona fede legalitaria e forcaiola (“Querelateli!”). Il compiacimento con cui ci si continua a rotolare come maiali nel fango di una retorica abusante trapela da ogni tentativo di autodifesa. Da Grillo che, accusando Boldrini di uso strumentale della violenza sulle donne (“a noi si e a Renzi no”, come se si trattasse dell’esercizio di un authority super partes, come se la violenza sessista non interpellasse innanzitutto in quanto soggetti) si permette di parlare a nome di un discorso che non gli appartiene; a Messora che tocca il fondo ultimo del discorso sessista, del diritto all’esercizio della violenza: quello di negarla, “nemmeno vali uno stupro”.
Ma vale la pena andare più a fondo. Guardando alle reazioni suscitate dall’episodio, oltre al miserabilismo delle solite retoriche vittimizzanti (vedi la messe di articoli sul cyberstalking) che – facendo appello al lessico della custodia, della difesa, della delega di potere alle istituzioni come unica strategia di uscita dall’oppressione – ragionano all’interno dello stesso campo discorsivo della violenza, salta all’occhio un dato. Da più parti ricorre una lettura che tende a mettere in rilievo il carattere paradigmatico dell’episodio, il quale, colpendo una donna emancipata, integrata nelle istituzioni, esprimerebbe la violenza di un rancore volto alla preservazione delle disparità fra i generi. Boldrini dunque, scatenerebbe la violenza sessista in virtù del ruolo che incarna e della posizione che è riuscita per se stessa a conquistare a prescindere da come lo utilizza o ne abusa. Tale lettura, se si approssima a focalizzare come raramente capita a politici e giornalisti i tratti sistemici di un episodio di violenza – ma c’è da chiedersi quanto ciò dipenda dalla posizione di ceto della donna in questione – non lo fa senza contropartita. Se è infatti innegabile che tali attacchi mirano a colpire Boldrini in quanto donna e non in quanto specifica parlamentare, perché parlano la grammatica misogina di una violenza, quella di genere, che si attacca al corpo, alla vita bruta per spogliarla di autonomia, dequalificarla dei suoi attributi soggettivi e sociali (e connotarla di nuovo), è d’altro canto evidente come l’obiettivo implicito dei commentatori sia quello di rilegittimare di converso l’operato politico di Boldrini e il suo ruolo di cane da guardia delle politiche del governo. La strategia di difesa della “vittima” è da sempre terreno di una lotta fra due istanze d’autorità, in questo caso, fra maggioranza e opposizione.
Il campo di verità su cui questo discorso si costruisce è che ogni attacco sessista colpisce tutte le donne perché politicamente agisce e struttura una relazione di potere più generale, perché è sempre politico e sociale (e mai “domestico” o privato). Da qui tuttavia la deduzione arbitraria che la difesa del posizionamento di Boldrini (il suo ruolo, la posizione sociale conquistata, anche il suo operato in ultima istanza) costituisca una difesa della libertà, dell’autodeterminazione e della “parità” delle donne tutte. Il presupposto che fonda un simile discorso è lo stesso espresso dal modello pariopportunista fondato sulla rappresentanza: che il genere sia un terreno liscio dove non si strutturano altri campi di forza, che l’ascesa di una donna ad una carica politica possa giovare a prescindere ad un genere in quanto tale, che dunque il rapporto rappresentante-rappresentata si costruisca su di un terreno più identitario che politico. Una simile concezione agisce rimuovendo le soggettività delle donne (e ogni differenza di ceto, classe, razza, provenienza geografica, etc) a vantaggio di una tipizzazione che trasforma l’interesse particolare in interesse generale. Se guardiamo al caso specifico, potremmo affermare che Boldrini incarni una sorta di fase due di tale modello emancipazionista ed integrazionista: integrata alle istituzioni su posizioni più o meno progressiste, attirandosi le simpatie di molte fautrici del modello pariopportunista, ha dato corpo all’illusione che ciò rappresentasse un fattore di miglioramento “complessivo” delle condizioni e possibilità di vita delle donne (se non materialmente per lo meno sul piano dell’attestazione simbolica di uguaglianza) prima di costituirsi come inedita protagonista della blindatura autoritaria di un dibattimento parlamentare, svelando il volto autoritario nascosto dello stesso sistema democratico e “plurale” che incarnerebbe. Se ci fossero dubbi sull’arbitrarietà del primo assunto (l’esistenza di una comprovata contiguità materiale d’interessi con le donne che vivono fuori dal parlamento), l’attuazione della cosiddetta “ghigliottina” ai danni di un’opposizione unica fautrice di istanze di giustizia sociale e timidamente redistributive a fronte di un decreto che tutela le oligarchie finanziarie, dovrebbe bastare a gettare luce sulla cesura che separa rappresentante e rappresentate. Il punto è che le donne non costituiscono un gruppo socialmente omogeneo più di quanto non lo siano gli uomini. E che a fronte dell’impoverimento di vasti settori della società, Boldrini incarna internità e complicità con un assetto sistemico e di potere nemico delle donne, in prima istanza delle proletarie (basti pensare alle politiche di finanziarizzazione e privatizzazione dei servizi, al conseguente incremento del welfare familiare, all’impoverimento diffuso che costituiscono le conseguenze dirette delle strategie politiche di questo governo). “Chi ha detto che hai giovato alla mia causa? Sono io che ho giovato alla tua carriera” scriveva “Rivolta femminile” nel 1977. E quand’anche si desse credito alle buone intenzioni di partenza, gli effetti soggettivanti delle politiche di integrazione (o meglio, di assimilazione) non sono trascurabili.
Insomma, se da un lato abbiamo assistito ad un exploit di violenza sessista, risulta difficile isolarla da una violenza integrazionista che se ha distribuito parità a singoli membri di un genere (o di una razza) lo ha fatto su basi assimilazioniste, producendo nella maggior parte dei casi poco più che intensificazione del consenso e della partecipazione al meccanismo del proprio sfruttamento. Condensare e proiettare sul nemico politico l’ipostasi del sessismo (e non è cosa nuova, vedi rapporti Pd-Berlusconi negli anni) serve molto bene la causa di oscurare la microfisica di pratiche che lo costituiscono e le precise responsabilità nella riproduzione anzi nell’aggravamento delle condizioni sistemiche che lo producono, responsabilità che sono trasversali all’arco politico. Da un lato politiche criminali condotte sotto l’egida del politically correct dall’altro istanze di giustizia sociale che (ma questo lo sapevamo) nascono in un bagno di coltura, in una costellazione soggettiva profondamente plasmata dai rapporti di potere capitalistici e che, se anche risultano talvolta capaci di individuare e dare voce ad un contro, scontano tutti i limiti di partenza della propria progettualità politica nell’incapacità di creare reali percorsi di soggettivazione, di trasformarsi trasformando, fornendo innanzitutto se stessi degli strumenti necessari alla realizzazione di obiettivi che non siano meramente tattici.
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