Torino: primo maggio, quel che è giusto, è giusto!
Primo maggio 2021. A più di un anno dall’inizio della pandemia a Torino c’è chi sceglie di scendere in piazza per dire chiaramente che bisogna cambiare il sistema. Perché per salvarci, per riprendere in mano le nostre vite non ci sono alternative.
L’abbiamo detto, la pandemia ha svelato le metastasi del sistema in cui viviamo scatenando crisi sanitaria, economica, ecologica. In più di un anno di pandemia i governi che si sono succeduti hanno dimostrato di essere non solo incompetenti ma anche criminali a fronte della responsabilità di gestire la tutela della collettività. Confindustria, Conte prima e Draghi poi, i sindacati confederali hanno dimostrato di voler salvaguardare unicamente il profitto di chi continua a produrre devastando territori, sfruttando la terra e le persone.
Oggi a Torino giovani e giovanissimi, il movimento no tav, chi lotta quotidianamente per conservare una vita dignitosa, giovani che si battono per il clima e per riprendersi la possibilità di formarsi attraverso dei saperi reali, lavoratori e lavoratrici, camminando sotto la pioggia si sono ripresi le strade e le piazze di questa città. Non è scontato, non è immediato per tutti e tutte scegliere di sfilare in corteo dopo un anno in cui le restrizioni anti covid hanno reso più difficili le pratiche di mobilitazione e di conflitto. Oggi c’è chi ha deciso di prendersi la responsabilità di esprimere la propria decisa opposizione a questa gestione della pandemia, a questa retorica del lavoro (senza entrare nel merito di quale lavoro) come possibilità di ripresa economica, a questo progresso che non è altro che morte e distruzione.
1500 persone sono partite da piazza Vittorio, tradizionale luogo di concentramento per il corteo del primo maggio, numerosi interventi hanno sottolineato quali dovrebbero essere le priorità oggi: la salute, la scuola, la cura dell’ambiente. Il governo Draghi struttura il Recovery Fund pensando solo a spartirsi i fondi con imprenditori e speculatori del nostro Paese, quando la sanità pubblica è al collasso a causa della mancanza di investimenti degli ultimi decenni e della disorganizzazione del sistema sanitario nazionale, dimostra di essere responsabile della morte di migliaia di persone. Le dichiarazioni di Mattarella sulla necessità di ripartire dal lavoro per la ripresa nazionale sostenuto dai sindacati e dal segretario della Cgil Landini che vuole rimettere al centro il lavoro come unica speranza sono carta straccia. Questo lavoro, in questo sistema marcio fino al midollo, non è ciò che ci aspettiamo come speranza per il futuro. I giovani di Fridays for Future l’hanno detto chiaramente, non ci può essere futuro se non si rivoluziona il sistema di produzione e di consumo attuale. Durante il corteo gli studenti e le studentesse hanno sanzionato il rettorato come simbolo dell’incapacità dell’università di garantire una formazione dignitosa nonostante le tasse continuino a dover essere pagate. Arrivato in piazza Castello lo spezzone sociale si è ricongiunto con i sindacati di base e altre realtà cittadine con l’intento di indicare la pochezza di quei sindacati rinchiusi nelle stanze del palazzo Comunale mentre il maxischermo in piazza San Carlo nemmeno riusciva a trasmettere il loro comizietto. Le forze dell’ordine non hanno perso tempo a sferrare manganellate sul corteo che tentava di entrare in via Palazzo di Città per raggiungere il Comune. Poco dopo Draghi appeso a una ghigliottina ha avuto il suo momento di visibilità, di sicuro un messaggio molto più chiaro di tante chiacchiere.
È stata una giornata che ha marcato delle differenze, una giornata animata da chi non si piega e vuole tracciare nuove strade per l’avvenire. Chi inneggia al lavoro come possibilità di ripresa è cieco di fronte a un’epoca in cui lo stesso sistema che ha prodotto la pandemia non è in grado di risolverla, non solo, è fintamente ignaro di quanto il sistema attuale si basi sullo sfruttamento del lavoro produttivo e riproduttivo di tutti quei soggetti che stanno alla base del modello della nostra società. Non vogliamo lavorare in questo modo, non vogliamo studiare in questo modo, non vogliamo vedere i territori in cui viviamo deturpati, non vogliamo sperare che il virus non contagi chi non ha i mezzi per potersi curare e salvare. La misura del disgusto per chi gestisce le risorse è colma, travalica le nostre forme organizzative, emerge nella quotidianità di chi lavora per mille euro al mese vedendosi costretto a scegliere tra salute e reddito, si esprime nella rabbia e nella frustrazione dei giovani che sono prematuramente consapevoli dell’impossibilità di una realizzazione soddisfacente, sta a noi rendere visibile una proposta all’altezza del cambiamento necessario. Crediamo che questa proposta parta indiscutibilmente dal costruire momenti di piazza capaci di praticare e rappresentare il conflitto che attraversa il nostro paese alle prese, forse, con la fuoriuscita dalla crisi sanitaria e sul baratro di una nuova e profonda crisi sociale.
Pensiamo voglia dire dare spazio e legittimità a chi oggi non si sente rappresentato da un sistema politico che esprime opzioni e soluzioni tutte uguali nella sostanza. Crediamo che serva indicare una via autonoma e popolare per costruire un’alternativa dal basso sui territori, senza conti di comodo e mettendo in conto tutti i rischi che questa scommessa comporta.
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