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Voucher da riscattare, affronti da vendicare

No joke, hanno reintrodotto i voucher. Abrogati a marzo scorso i buoni lavorativi orari da riscuotere al tabacchino sono stati reintrodotti proprio nei giorni in cui si sarebbe dovuto tenere il referendum abrogativo voluto dalla Cgil su questi scontrini della prestazione lavorativa. Hanno fatto Presto – questo il nome dei voucher reloaded – anzi, prestissimo, neanche due mesi per reintrodurli. Giusto il tempo utile a Renzi per rimettersi in sella alla guida della segreteria del Partito Democratico e per distogliere l’attenzione da quel furbone di Poletti. C’è dunque una prima considerazione da fare rispetto a questo ‘fattaccio’ che ha frantumato le velleità più battagliere (sic) della Camusso: c’è un processo di stabilizzazione politica dopo il referendum del 4 dicembre che mira a restaurare gerarchie e traiettorie di ristrutturazione capitalistica nel paese dopo una parziale frenata. Ma è tutto qua? No, certo. Si tratta di un processo non liscio entro il quale le contraddizioni del No si possono amplificare dentro nuove possibili dimensioni sociali di rigetto dell’autocrazia democratica. Su come organizzare questo terreno va però osservato in primo luogo che un velo è caduto: la vendetta per questo raggiro non spetterà alla sinistra. La crociata contro i voucher della Cgil è stata dribblata sabotandone il referendum, questo basta per far scadere a rottoppo la mobilitazione indetta per il 17 giugno in piazza san Giovanni: #schiaffoallademocrazia. Ma è proprio il senso della democrazia che non può essere riscattato senza che venga trovata la forza per imporre la volontà popolare così come il senso del lavoro non può essere riconosciuto come rapporto antagonista di sfruttamento (chiediamo troppo?), se si continua a scambiarne la forma attuale per il suo simulacro. Insomma, non sarà rivendicando le tutele del lavoro subordinato contro la giungla deregolamentata dei nuovi ticket che si produrranno nuove garanzie. Non sarà la sinistra che difende il Lavoro che ci spiegherà come lottare contro questo lavoro straccione e il suo sfruttamento.

Le ragioni sono molteplici. C’è innanzitutto una conformazione del mercato del lavoro che di fatto non può fare a meno dei voucher. Gli idealisti (o gli ideologici?) ingoino il rospo. La questione di come sia più opportuno sottrarre al nero quote di lavoro occasionale, tramite voucher o meno, è un artificio retorico che distoglie l’attenzione dal vero nodo della questione: il 90% delle aziende del paese ha meno di cinque dipendenti e i nuovi ticket potranno essere usati da aziende fino a un massimo di cinque dipendenti assunti a tempo indeterminato. Il fatto che il sistema Italia non abbia potuto affrontare neanche una singola stagione turistica senza i ticket-lavoro dà la cifra di quanto questa forma di retribuzione iper-precaria corrisponda alla formalizzazione giuridica della liquefazione oggettiva del mercato del lavoro del nostro paese più che a un attacco a forme di garanzie ormai inaccessibili ai più. A questa fluidità del rapporto lavorativo naturalmente ricercato dal capitale corrisponde però, e qui il il segreto di pulcinella, anche una accettazione da parte nostra di questo strumento, o meglio l’adeguamento di comportamenti proletari ai rapporti di sfruttamento vigenti. Tutti proni e sconfitti? No, alienati ma non alieni. Abitiamo il presente, lo detestiamo ma vogliamo spremerlo nelle forme in cui ci si presenta per avere indietro quello che ci spetta. Non ci è concesso sognare altri mondi quando siamo condannati a vivere questo. Sarebbe interessante analizzare quanti giovani o quanti voucheristi abbiano effettivamente firmato per il referendum della CGIL, ma è facile immaginare che a sostenere la consultazione contro il jobs act sia stato chi ha conosciuto un’altra fase dei rapporti di lavoro. Mentre i parrucconi del sindacato festeggiavano la vittoria a tavolino, intorno a noi abbiamo visto tanti amici perdere semplicemente il lavoro a seguito dell’abolizione dei voucher e la fine (provvisoria) di questa forma contrattuale. Perché, a bocce ferme, alla fine dei voucher non corrisponde il contratto ma il nulla. In un sistema capitalistico non esiste l’oggettività esterna del capitale davanti alla soggettività proletaria. L’attuale precarizzazione del mercato del lavoro a cui si riferisce il PD per giustificare la reintroduzione di forme contrattuali iper-precarie descrive sicuramente più realtà del mondo delle favole sindacali. Ciò che non dicono è però che essa è il fedele riflesso del livello di subordinazione soggettiva raggiunta dal lavoro vivo. Come scriveva tempo fa un ormai senatore del Partito Democratico, prima viene la classe, poi il capitale.

Proprio da qui, dalla necessità di (ri-)creare dei livelli d’insubordinazione che si gioca la partita. Pensare che una scorciatoia giuridica possa cambiare anche di una virgola quel rapporto di subordinazione che si chiama lavoro salariato è prendere l’involucro del diritto per il contenuto effettivo del rapporto tra capitale e lavoro. Quel rapporto è sempre rapporto di forza e quindi, in quanto tale, oggi completamente sbilanciato a favore del nostro nemico che ci leva giornate intere, salute e vita per una miseria. Mettendo le cose nella giusta prospettiva la forma voucher ne è un mero riflesso e quindi, di per sé, ininfluente. In maniera spregiudicata, la voucherizzazione rappresenta, anzi, il livellamento formale di un rapporto di lavoro già oggettivamente precario. Si tratta di un potenziale campo di battaglia. Chissà, ad esempio, quanti giovani vorrebbero poter decidere cosa fare di quei 2,5€ dei 10€ di tasse destinati a pagare le pensioni di un’ipertrofica terza età che vive oggi sulle loro spalle senza che alcun tipo di futuro venga neanche più promesso loro?

Le nostre aspirazioni devono ambire a organizzare terreni di conflitto a questa altezza, ma non siamo ingenui sognatori. Una volta di più viviamo l’oggi prima di tutto, nella sua urgenza e nell’immediato la questione voucher rappresenta un simbolo. Quello della prepotenza e della provocazione politica che catalizza un orizzonte ampio di rivalsa. I simboli o si giocano nella loro politicità o scadono nella rappresentazione. Non è difficile vedere, da mesi, cosa ha scelto la CGIL. Invece di giocare di rilancio sull’onda del NO referendario, ha accolto con sollievo la bocciatura del quesito sull’articolo 18 prima e l’abolizione farlocca dei voucher poi, nella consapevolezza che, per garantire la co-gestione di un esistente che garantisce la sua stessa sopravvivenza, non bisognava evitare il risultato ma lo scontro. Oggi, a fronte di una provocazione sfacciata, convoca per il 17 giugno una piazza deprimente, una kermesse non contro i voucher ma in favore del referendum sui voucher, facendo dei buoni lavoro una questione di democrazia invece che un simbolo dello sfruttamento. C’è una generazione stanca di portare sulle spalle il ‘900 di questo sindacato, stanca degli affronti della politica, affamata di denaro e ambiziosa di futuro. Ci sono simboli da colpire e una generazione da organizzare nella sua conflittualità di classe. Poletti deve pagare. Dobbiamo farci pagare.

 

 

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