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Edu-Factory meeting: per una nuova Europa, lotte contro l’austerità!

 

Una rete ribelle nella fabbrica dell’educazione

di Benedetto Vecchi

 

Quando alcuni anni fa, un gruppo eterogeneo di studenti e ricercatori hanno dato vita all’esperienza di Edu-factory in pochi pensavano che una rete transnazionale potesse riuscire a discutere di come stava cambiando l’università a livello globale. Studiosi e attivisti con «tradizioni» teoriche diverse alle spalle potevano confrontarsi, provando a mettere al lavoro le differenze e le ripetizioni che accompagnavano gli interventi pubblici e privati nella formazione universitaria. Il punto di partenza era quella «circolazione di cervelli» favorita dalla cosiddetta globalizzazione, ma anche la trasformazione dell’università in un vero e proprio «settore produttivo». Inoltre, forte era la constatazione che l’accesso alla formazione superiore avveniva attraverso l’indebitamento visto che i costi per frequentare collage, campus e facoltà erano schizzati verso l’alto. Allo stesso tempo, emergeva una sorta di crisi degli statuti delle discipline e dei saperi che prefigurava un «declassamento» della formazione universitaria. L’università non riusciva più a essere, come invece era accaduto in passato, il requisito necessario per un accesso al mercato del lavoro in una posizione di forza. Termini come precarietà, finanziarizzazione del welfare e conflitto entrarono con forza nel lessico politico degli organizzatori di Edu-factory. Ne scaturì una discussione che vede protagonisti docenti, ricercatori e studenti non solo europei, ma anche statunitensi, australiani, indiani, cinesi. I materiali furono poi raccolti in un volume – la pubblicazione italiana è stata fatta dalla manifestolibri con il titolo Università globale. Il nuovo mercato del sapere – Nel frattempo sono accadute molte cose. Studenti e docenti in sciopero negli Stati Uniti, mobilitazioni in Spagna, Francia, Spagna, fino a quando, lo scorso inverno le città inglesi sono state invase da studenti. In Italia, ma questa è cronaca, nell’opposizione alla riforma Gelmini sono echeggiati argomenti, riflessioni che hanno costituito un vero e proprio programma di ricerca teorica del gruppo Edu-factory (la discussione è ripresa e può essere consultata nel sito Internet: www.edu-facory.org), che ha visto partecipare anche molte altre realtà universitarie, dall’Europa dell’Est al Maghreb. Edu-factory ha così organizzato un meeting che inizierà il prossimo venerdì a Parigi (appuntamento nella sede dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales, nei giorni successivi i lavori si sposteranno all’Università di Saint Denis). C’è nel programma dei lavori un forte accento su come la crisi economica stia producendo una forte differenziazione nelle risposte nazionali. E questo è molto evidente anche nella ricerca e nell’università. Così mentre la Germania e la Francia aumentano le risorse pubbliche destinate alla formazione, in altri paesi i finanziamenti pubblici registrano un drastica riduzione. Nei giorni scorsi, le conclusioni di uno studio della Commissione europea ha lanciato l’allarme che i paesi del vecchio continente stanno riducendo troppo le risorse destinate alla ricerca scientifica. E se si esce dai confini europei, la realtà appare più articolata. È cosa nota che la Cina, l’India, il Brasile stanno investendo e molto nell’università e nella ricerca scientifica. E tuttavia, al di là delle politiche nazionali, emerge un sostanziale aumento dei «costi d’ingresso» alle Università. Tasse molto alte a cui corrisponde una «politica del debito» individuale e una «finanziarizzazione del welfare state», espressione usata nelle scienze sociali per indicare la tendenza a trasformare i servizi sociali in merci da acquistare al mercato. Inoltre, la precarietà non è più prerogativa delle fasce cosiddette basse del mercato del lavoro, ma è ormai la condizione anche per chi ha avuto una formazione universitaria, come d’altronde emerge nei contributi dei due ricercatori pubblicati in questa pagina. Di questo e molto altro si discuterà a Parigi, cercando anche di allargare le maglie della rete (ad esempio sono previsti interventi di ricercatori e studenti tunisini e non solo), prospettando l’altra sponda del Mediterraneo come sede del prossimo meeting di Edu-factory. Ma di questo ne daremo conto nei prossimi giorni.

 

Il campus europeo
  di Joan M. Gual, Coordinatore di Commoniversity e membro dell’Universidad Nómada

 

Qualche mese fa le immagini dei visi terrorizzate di Camilla Parker e il principe Carlo d’Inghilterra quando la macchina nella quale viaggiavano è stata fermata da chi manifestava contro l’aumento delle tasse universitarie hanno fatto il giro del mondo. Il desiderio di non fare di questa immagine un semplice aneddoto bensì un simbolo anticipatorio di un reale accerchiamento delle élites europee in nome della riappropriazione della cooperazione e della ricchezza è una delle ragioni che hanno spinto molti gruppi dui studenti e ricercatori a cercare un nuovo spazio di coordinamento delle lotte. Proprio per questo è importante la rete Edu-Factory, poiché dopo essere stata un laboratorio teorico negli ultimi anni, il collettivo transnazionale lancia ora una nuova sfida dell’immaginazione politica: organizzare scioperi metropolitani capaci di affermare nuovi diritti contro l’imposizione delle politiche di austerità. La gestione della crisi è una spada di Damocle: soprattutto i giovani sono soffocati da una cinghia – conseguenza della precarietà – che ora si vorrebbe ancora di più stringere. La fotografia dell’impaurita nobiltà britannica vanno viste insieme alle diverse occupazioni di facoltà nelle più grandi città del vecchio continente, e ai conflitti di studenti e precari prima, durante e dopo l’applicazione del cosiddetto Bologna Process. I fatti inglesi e italiani sono solo tra quelli più recenti: in questi paesi, del resto, il Bologna Process è già stato approvato da tempo e l’obiettivo delle mobilitazioni di studenti, ricercatori e docenti si è spostato verso le sue conseguenze: l’aumento delle tasse universitarie e la dequalificazione dei saperi (prodotto di una nuova segmentazione) sono i chiari sintomi della strategia del new public management messa in pratica dagli stati membri dell’Unione europea per risparmiare i fondi da investire nell’istruzione superiore, creando così continui filtri all’accesso. Per questi motivi, dall’11 al 13 febbraio si svolgerà a Parigi un incontro internazionale lanciato da Edu-Factory. Questo evento, che raggrupperà molti collettivi e reti europee, ma anche da Nord America, America Latina, Africa e Asia, ha come obiettivo la costruzione e il rafforzamento di un network che si propone di essere un luogo di riflessione e di conflitto all’interno di un contesto segnato dalla precarietà e dallo sfruttamento. L’appuntamento è in continuità con le mobilitazioni e meeting contro l’applicazione del Bologna Process, noti come Bologna Burns, che si sono svolti a partire dal marzo del 2010 a Vienna, Madrid e Bologna, per finire con «Commoniversity» a Barcellona nel mese di novembre. I differenti gradi di applicazione del Bologna Process, il livello di sviluppo delle free school e dei gruppi di autoformazione, insieme alle lotte che si oppongono al debito studentesco costituiscono i principali temi di discussione. L’incontro si propone da una parte di sviluppare un discorso politico radicale sulle trasformazioni dell’università a partire dalle lotte dall’altra di proporre e organizzare campagne e azioni comuni. Basterebbe anche dare un sguardo superficiale alle emeroteche degli ultimi anni per rendersi conto che esiste un punto chiaro che accomuna i giovani europei: la lotta alla mercantilizzazione dell’università. Contro le recenti caratterizzazioni della gioventù proposte dai mass media, che plasmano l’idea di una gioventù passiva e rassegnata alla crisi, possiamo opporre la forza di un soggetto nuovo e potente. Sarà Parigi un punto di svolta per la costituzione di un movimento di studenti e precari transnazionale? Questa è la scommessa. La città di Parigi è stata scelta anche per il suo alto valore simbolico, poiché nel 2006 è stata scenario delle lotte vincenti del movimento contro il Cpe (Contratto di Primo Impiego) e, più recentemente, di scioperi radicali che hanno paralizzato l’intero paese. L’università, soprattutto in tempi di crisi, è considerata un bene di consumo su cui risparmiare, condannata all’austerità e alla progressiva finanziarizzazione attraverso il debito studentesco. Le mobilitazioni per una formazione garantita e contro un’università classista oggi significano la costruzione del comune.


Precari e indebitati. L’incubo conservatore della «grande società».

di Francesco Salvini, Queen Mary University, Londra

 

Negli ultimi mesi, migliaia di studenti hanno invaso le strade di Londra. Un movimento che ha occupato la scena pubblica in un paese in cui la mobilitazione politica era da lungo tempo sopita. A prendere la parola è stata una piazza giovane e multietnica, ovvero l’opposto dell’avversario desiderato dal premier conservatore David Cameron, che proprio in questi giorni ha lanciato anatemi contro la diversità e il multiculturalismo. Oltre a rappresentare un simbolo, questa riforma del sistema educativo è il laboratorio più avanzato per provare a comprendere le politiche conservatrici ed è la cartina di tornasole per capire fino a che punto la società britannica sarà disposta ad accettare i sacrifici della crisi. Se il motto di Lady Thatcher era «there is not such a thing as society», oggi i Tories – seguendo l’esempio di Blair – non solo hanno imparato che si possono fare affari anche con la società civile tra i piedi, ma sono andati oltre e dicono «non esiste società oltre i nostri valori». In altri termini, «la società siamo noi». Oltre all’aumento del 300% delle tasse universitarie – che salgono da tremila a novemila sterline all’anno – il nuovo modello si basa su tagli vertiginosi al finanziamento pubblico dell’università – con punte del 90% nelle facoltà umanistiche – e l’ingresso di sponsor privati negli Atenei. E l’intervento del governo si sta spostando ora su altri obiettivi, in particolare tagliando gli Ema (il sostegno pubblico agli studenti medi), una scelta che aggredisce le famiglie operaie e migranti. Poi sarà la volta dei tagli alla sanità, ai trasferimenti sociali, ai servizi pubblici. Insomma il progetto di una nuova big society sembra proprio segnato da una vecchia strategia classista. Prima di tutto, una quota di 30.000 euro per chiunque voglia entrare nella parte «alta» del mercato del lavoro. Una mossa che permetterà di ricapitalizzare il risparmio familiare immobilizzato durante il fordismo e che obbligherà i nuovi cittadini – soprattutto i figli di chi è immigrato dalle colonie – a subire il ricatto del debito per accedere a una formazione universitaria. In secondo luogo una polarizzazione fortissima di classe e di razza tra chi potrà intraprendere un percorso di studi fino ai 25 anni e chi – tolto l’Ema – precipiterà già a 16 anni sul mercato del lavoro. La big society però è qualcosa di più. È un dispositivo di cattura e governo della cooperazione sociale, che punta a fare distinzioni tra forme positive e negative di cooperazione. Da un lato la solidarietà dell’austerity per aiutare il paese a sconfiggere la crisi. Dall’altro il pericolo di chi minaccia l’ordine morale britannico. Da una parte le banche del tempo istituite dal governo per chiudere con il volontariato le falle nei servizi minimi, dall’altra la criminalizzazione delle reti comunitarie, capaci negli ultimi mesi di istituire luoghi di discussione pubblica, meccanismi di azione e reti di mutuo appoggio dentro la crisi. Le strade di Londra durante le manifestazioni di Novembre e Dicembre e di nuovo in Gennaio non sono state solo una possibile via di scampo, ma pure un luogo di incontro tra diverse esperienze, che cercano di contrastare gli attacchi conservatori alla vita sociale e che provano anche a pensare politiche oltre la tradizione stantia e problematica della terza via laburista. La prossima grande manifestazione convocata dai sindacati per il 26 marzo sembra ancora lontana, ma già sappiamo che la big society si troverà di nuovo faccia a faccia con un’altra società. Una società viva e sempre più politica.

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