Emilia: università dello sfruttamento contemporaneo
Evidentemente Dionigi sta provando ad operare una rimozione delle parti più discusse del suo operato, che hanno sempre riscontrato il beneplacito dei poteri forti, ma raramente quello degli studenti e delle studentesse che hanno visto durante gli anni della sua gestione una continua perdita di diritti e di accesso a welfare e servizi. Di fatto il rettore dell’Unibo e il suo staff, sfruttando la relativa disponibilità di fondi dell’ateneo più antico del mondo, hanno provato a tenere un piede in due scarpe: mantenere l’accessibilità di massa all’università attivando nel frattempo le ristrutturazioni meritocratiche previste dal ministero necessarie per ottenere fondi e finaziamenti. Ma il barile si sa un fondo ce l’ha e non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca…
Il metodo usato è quello consigliato dall’italica sapienza dei nostri governanti – la doppiezza di machiavelliana memoria – che evidentemente è ben custodita nella figura di questo illustre latinista al servizio del papa e rettore austero. Le vere novità si sono viste solo sul piano della meritocrazia con tasse scontate ai più bravi, borse di studio a chi ha il rendimento più elevato in termini di voti, studentati d’elite gestiti da Comunione e Liberazione con rette da 20.000 euro all’anno perlopiù pagate coi soldi di tutt*, istituzione generalizzata dei numeri chiusi (Lettere esclusa per non gettare una nuova miccia nella polveriera di via Zamboni), corsi rivolti all’utile di alcune aziende, istituzione di cerimonie, premi e onorificenze per costruire l’immaginario di un nuovo tempio del sapere e delle eccellenze, le lauree ad honorem agli artefici dell’austerità Napolitano e Trichet.
Durante la gestione Dionigi invece l’accessibilità di massa all’università, sbandierata come specchietto per le allodole da un entourage legato a doppio filo a SEL, è stata letteralmente fatta a pezzi e frustrata. C’è da chiedersi quanti giovani, oggi nullafacenti, siano stati espulsi dai circuiti della formazione superiore in Emilia-Romagna dalla dismissione generalizzata del welfare e dei servizi operata negli ultimi anni. Siamo sicuri che l’università abbia fatto la sua parte per dare una speranza ai giovani durante la crisi? A sentire il rapporto di un paio di mesi fa della garante degli studenti Dolores Neri – rimasto lettera morta – sembrerebbe proprio di no. La denuncia è chiara: gravissime difficoltà economiche da parte degli studenti e conclamata messa in discussione dell’uguaglianza rispetto all’accesso all’università.
In effetti possiamo ricordare il taglio del medico di base per gli studenti fuorisede, la difficoltà ad erogare le borse di studio a chi ha redditi bassi a partire dal prossimo A.A. ammessa dallo stesso prorettore agli studenti Nicoletti, i 1465 posti letto garantiti negli studentati dell’ERGO a fronte di più di 80.000 studenti iscritti all’università (che di fatto stimola il caro-affitti in città), gli aumenti delle tasse mascherati (se paghi in due rate la retta aumenta di più di cento euro), la mensa più cara d’Italia, le minacce di licenziamento ai ricercatori precari in sciopero, lo sfruttamento (2,80/h) cui sono sottoposti i giovani lavoratori delle portinerie appaltati a coopservice, il taglio degli appelli di esame e l’aumento dei corsi obbligatori che impone agli studenti a ritmi da fabbrica (se vai fuori corso diventi non meritevole e l’accesso al welfare ti è precluso) in un periodo difficile in cui molti lavorano per mantenersi agli studi.
A completare l’operato ultimamente ci si è messo anche l’affare Staveco: una gigantesca area post-industriale fuori dal centro ceduta a titolo gratuito dal comune all’università in vista della realizzazione del “campus delle eccellenze” per finanziare il quale l’ateneo dovrà sborsare più di 70 milioni di euro che deriveranno dalla svendita degli stabili storici siti in via Zamboni, nel cuore pulsante della Zona Universitaria. Dionigi prende a braccetto gli speculatori e guida il dispositivo ormai noto per cui il potere pubblico, completamente asservito ai mercati e ai privati, dirige e organizza la speculazione dragando i soldi e le risorse collettive svendendo il proprio patrimonio e orientandole verso fondi di investimento e grandi opere. In questo caso gli scopi sono multi-livello: spostamento di risorse, intelligenze e mezzi verso le eccellenze prendendo soldi da tutti coloro che compongono l’Alma Mater (in una sorta di imbuto che esclude le nuove povertà) e la gentrificazione e privatizzazione della Zona Universitaria di concerto con le istituzioni cittadine in risposta alle lotte che negli ultimi anni stanno definendo un territorio di contesa proprio là dove sono più evidenti le politiche anti-studentesche dell’università.
Fa riflettere come le uniche forme di lotta che dal basso stanno contrastando queste politiche scellerate siano quelle messe in campo da collettivi e realtà di movimento autorganizzate, le uniche in grado di stare fuori dal ricatto dirigista che ha bloccato i sindacati studenteschi che, in quanto rappresentanti del giuoco dei partiti dell’arco istituzionale, hanno svolto la funzione di regolare verso il basso l’applicazione delle riforme bipartisan che hanno colpito l’università e hanno finito per appoggiare anche le modulazioni della governamentalità territoriale sposando i tentativi di militarizzazione e desertificazione della Zona Universitaria. Guardando alla parzialità dell’università, tra occupazioni e sgomberi di studentati occupati, di continue autoriduzioni in mensa, dell’espansione degli spazi occupati nelle facoltà, della rivendicazione di un diritto alla città da parte di giovani e precari contro i dispositivi di controllo (di cui la cacciata della polizia da piazza Verdi del maggio 2013 è stata l’emblema) possiamo affermare con una buona approssimazione che anche a Bologna nel cuore dell’Emilia socialdemocratica l’unica opposizione al partito-sistema si sta dando sul piano delle lotte; l’unico in grado di definire il governo Renzi come una controparte di classe.
Forti di questo ragionamento fa sorridere davvero la pretestuosità della recente polemica scoppiata tra il neo-ministro del lavoro Poletti (espressione del capitalismo di sinistra emiliano) e la segretaria della CGIL Susanna Camusso. Per Poletti infatti la concertazione sarebbe stata “solo un modo per stare tutti intorno ad un grande tavolo, facendo pagare il conto agli italiani”. Una dichiarazione che mette a nudo il ruolo anti-operaio e anti-sociale, proprio della sinistra di governo durante i momenti in cui il disagio sociale è più diffuso, che oggi il PD di Renzi rappresenta. D’altro canto la Camusso e i sindacati confederali dovrebbero ormai avere chiare quelle che sono state le loro responsabilità nell’abbattere i diritti dei lavoratori e lasciar dilagare il meccanismo di milioni di precari non garantiti. In questo senso si, a fronte di un sindacato che non rappresenta più il corpo vivo della società, quei tavoli di concertazione non servono proprio a nessuno se non a spartirsi le briciole mettendo in contrapposizione pezzi di tessuto sociale.
Lo spettro del ritorno al ’77 forse non si riferisce solo ai dati sulla disoccupazione giovanile, ma anche a questa funzione di guardiano del sistema che il principale partito della sinistra italiana ama ricoprire – in questo caso si “facendo pagare il conto agli italiani” – e la contestuale crisi della rappresentanza sindacale classica. Quelle che mancano sono lotte massificate e diffuse capaci di sfidare dal basso questi dispositivi di governo della povertà. Prendiamo per buono quello che fino ad oggi i movimenti sono riusciti ad esprimere in termini di antagonismo a questi processi che hanno portato in Emilia alla lotta dei facchini della logistica, tutt’ora in corso e sostenuta da sindacati conflittuali, alla resistenza degli studenti dell’Unibo e la nuova energia della lotta per la casa. Forse nell’università dello sfruttamento emiliano sta cominciando a tracciare le sue strade e a mettersi in cammino una nuova facoltà di lottare.
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