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“L’Università è un’azienda!”

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Negli anni 1989-1990 il movimento della Pantera occupava le facoltà per denunciare l’avvio, con la “riforma Ruberti”, di un processo di privatizzazione e smantellamento dell’università pubblica. Oggi, trascorsi più di trent’anni e altre pessime riforme (fra le quali, le leggi n. 133 del 2008 e n. 240 del 2010, contro le quali si è battuto un altro movimento, l’Onda), quanto allora si prospettava come futuro distopico è diventato realtà.

Di Alessandra Algostino per Volere la Luna

Di questi giorni è la corsa delle università a bandire borse di dottorato (programma React-Eu, in sintonia con la missione 4 del PNRR, significativamente intitolata “Dalla ricerca all’impresa”), così come posti da ricercatore a tempo determinato, che prestabiliscono i temi di ricerca (green e innovazione, ça va sans dire) e obbligano a svolgere un periodo di tempo fra i sei e i dodici mesi presso un’impresa, pena la revoca della borsa o del contratto. L’ingresso dei privati nell’università si declina come diretta regalia alle imprese, in coerenza con l’orizzonte di un PNRR che eleva proprio l’impresa a soggetto principe e nella prospettiva ordoliberista (al momento nella sua versione “con sussidi statali”) per cui il benessere della società dipende dalla massimizzazione del profitto dei privati. Come se non avessimo una Costituzione che mette al centro la persona E che ragiona di limiti e indirizzi della libertà di iniziativa economica privata per fini sociali (art. 41 Costituzione), che proclama la libertà della scienza e dell’insegnamento (art. 33 Costituzione).

Il processo di aziendalizzazione è duplice: da un lato, l’università si struttura come un’azienda; dall’altro, suo interlocutore privilegiato sono le aziende. La trasformazione muove dal linguaggio (per tutti, i crediti), e pervade la configurazione dell’università, il suo senso, la sua mission, per restare in tema con un termine à la page. La ricerca di base, libera, senza oggetti e indirizzi predeterminati, scompare in favore della ricerca applicata. La disparità di finanziamento, miope fra l’altro nel guardare al futuro (senza ricerca di base non progredisce nemmeno quella applicata, ma, si sa, è l’hic et nunc il tempo del neoliberismo), si traduce in una violazione, oltre che della libertà accademica, della promozione della cultura e della ricerca (art. 9 Costituzione). La canalizzazione in alcuni settori, come prevede il PNRR, e il sistema della progettazione indirizzata, nazionale e europea, introducono dei condizionamenti che vanificano la libertà.

Non solo: restringendo orizzonti, prospettive e alternative, si intaccano le precondizioni del sapere critico e plurale che alimenta il pluralismo e il conflitto quali essenza e humus imprescindibile della democrazia. Conoscenza e pensiero critico sono sostituite dalle nozioni, dalla tecnica, dalle “competenze”, funzionali a una visione, dalla capacità di attrarre risorse e produrre ricerca “redditizia”.

Ancora: l’adesione al paradigma della competitività genera una concorrenza e una graduazione fra le università, segnando la distanza dall’orizzonte costituzionale dell’eguaglianza, formale e sostanziale (art. 3 Costituzione); il modello dell’eccellenza contrasta con il progetto costituzionale di emancipazione, di ciascuno e di tutti. Il diritto allo studio (art. 34 Costituzione) è sotto-finanziato e si tramuta in privilegio per pochi: il discorso costituzionale del merito si trasfigura in una meritocrazia che tende a legittimare le diseguaglianze, occultandone le cause; i divari fra le università sono affrontati con meccanismi premiali – costruiti al contrario di quanto l’eguaglianza sostanziale vorrebbe – che favoriscono le “eccellenze”, in spregio fra l’altro, alle dinamiche positive che l’università può innescare nell’interazione con il territorio e la società.

L’iniezione di fondi con il PNRR (9 miliardi a università e ricerca) non riequilibra il pesante sottofinanziamento dell’università e della ricerca (solo un dato: alla ricerca l’Italia destina lo 0,96% del PIL contro l’1,55% della media dei paesi OCSE) e si situa nel solco di una ricerca “condizionata” e cooptata nella logica aziendalista. L’implementazione dei posti da ricercatore a tempo determinato e il reclutamento prefigurato dal disegno di legge in discussione in Senato (AS n. 2285) ripropongono, inoltre, il dramma di un precariato che non rispetta i canoni di un lavoro dignitoso e non garantisce libertà di ricerca.

È necessaria un’inversione di tendenza, quantitativa, con finanziamenti adeguati dei fondi ordinari e del diritto allo studio (nell’ottica non di un semplice aumento, ma della soddisfazione di un diritto a carattere universale), e qualitativa, per un’università – pubblica – che sia strumento di trasformazione sociale, spazio di pensiero critico dell’esistente e libero nel creare e immaginare alternative, aperto al territorio e alla società. E innanzitutto è necessario rompere il silenzio.

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