La doppia natura della conoscenza
Il sapere si diffonde come un virus e come un virus muta, si adatta all’ambiente e al corpo che lo ospita. Ma nella sua propagazione si arricchisce di contenuti da chi lo apprende e lo rielabora. È questa una verità «minimale». Ma se il sapere diviene forza produttiva tale banalità deve essere abbandonata a favore di un tentativo di spiegare come viene prodotto il sapere nei luoghi preposti alla sua «produzione» e socializzazione.
L’Università, dunque, ma anche i centri di ricerca e sviluppo diventano laboratori nei quali la trasformazione del sapere in forza produttiva assegna alla distinzione tra docenti e studenti un altro significato da quello istituzionale. Se si parte dall’Università, non va mai dimenticato che gli studenti sono ancora i destinatari finali nella trasmissione del sapere, ma al tempo stesso anche produttori di sapere. Contribuiscono cioè ad arricchirlo di nuovi contenuti. Si potrebbe obiettare che questo è sempre avvenuto. Vero, ma la differenza rispetto al passato è data proprio dalla trasformazione del sapere in forza produttiva. Inoltre, come ogni mezzo di produzione il sapere è anche una merce. La possibilità, ad esempio, di poter brevettare i risultati di alcune ricerche svolte negli atenei è un modo particolare per fare profitti sul sapere. Lo stesso vale per i laboratori di ricerca privati, che funzionano proprio come imprese.
Ma tutto ciò, in Europa, è in contraddizione con il fatto che le risorse destinate alla ricerca e alla università sono in costante riduzione da almeno un decennio. L’aumento delle tasse universitarie è inoltre tendenza generale per compensare la riduzione degli investimenti pubblici, mentre gli atenei sono sempre più governati come fossero delle imprese, dove il pareggio del bilancio è un dogma intoccabile. A questo si aggiunge il fatto che nelle università il sapere viene sempre più scandito con una modularità calibrata su supposte esigenze del mercato del lavoro, ma che impoverisce gli statuti della conoscenza. Infine, l’accesso all’università e la laurea non sono più sinonimi di mobilità sociale verso l’alto. L’Università forma cioè una forza-lavoro a media formazione e tuttavia addestrata anche a un futuro precario.
È in questo contesto che le mobilitazione studentesche hanno preso corpo nell’ultimo decennio, fino allo scorso autunno quando sono state scandite dalla critica all’università come agenzia di formazione della precarietà. Non dunque per superare la miseria della condizione studentesca, ma per sovvertire il destino di futuri precari, facendo leva invece sulla ricchezza delle relazioni e sulla capacità diffusa di arricchire quel sapere che viene loro trasmesso. Un cambiamento di prospettiva che rende i movimenti meno carsici di quanto sembra, ma che necessita di un cambiamento di prospettiva altrettanto radicale nella loro analisi. E così affrontare il problema di cosa significa vincere o perdere; quale il rapporto tra un movimento sociale e l’opinione pubblica, uscendo così finalmente da una visione statica del binomio «conflitto e consenso». Temi e argomenti non più rinviabili e che nel meeting parigino organizzato dalla rete Edu-facory sono stati affrontati. È tempo che in Italia si ricominci a ragionare su tutto ciò, convocando degli stati generali della conoscenza.
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