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L’anomalia italiana di Internet

 

Puntualizziamo. Lungi da noi difendere i motori di ricerca che effettivamente svolgono un ruolo di intermediazione informativa e culturale di primissimo piano, dato che rappresentano uno dei gate principali nell’accesso all’informazione. Lungi da noi prendere le parti di attori economici privati che sulla base di criteri stabiliti dalla segretezza dei loro algoritmi svolgono una funzione a carattere pubblico senza che questa venga attualmente regolamentata al pari degli altri media audiovisivi. E lungi da noi stracciarci le vesti (anche perché altrimenti non sapremo più quali abiti indossare) per dei soggetti privati che possono permettersi di esercitare a briglie sciolte un potere spaventoso anche sotto il profilo politico oltre che economico. Ribadiamolo: il potere oggi riposa sulla punta dell’informazione ed i motori di ricerca negli ultimi anni ne hanno spesso attuato forme di governance scellerate.

Ma qui la questione è altra. Ormai siamo al ridicolo. Siamo spettatori dell’ennesima puntata degradante di una sitcom all’italiana che sta inchiodando la cultura digitale del nostro paese all’età del rame. Le soluzioni ipotizzate dall’apparato giuridico e legislativo italiano per porre argine allo strapotere dei motori di ricerca e dei nodi di aggregazione dell’informazione non hanno né capo né coda, perché applicano vecchi principi giuridici (la tutela di un diritto d’autore anacronistico come le canzonette di Renzo Arbore) a situazioni, chiamiamole così, “nuove”.

Il punto vero è che però nel contesto italiano non potrebbe essere altrimenti.

Diversamente tutto il settore televisivo, cinematografico e musicale (che, non dimentichiamolo, negli anni ha svolto un ruolo fondamentale nell’affermazione del modello culturale berlusconiano) vedrebbe improvvisamente venir meno quell’ombrello che fino a questo momento l’ha messo al riparo dalla concorrenza. Si, perché anche questo significa “lotta alla pirateria” nel vocabolario politico italiano: disarcionare da cavallo con ogni mezzo necessario i “competitors” pericolosi, per trotterellare in tranquillità verso il traguardo del prossimo bilancio trimestrale. Se qui la situazione è stagnante, altrove tycoon ben più potenti del nano di Arcore, sono stati costretti a modificare radicalmente il loro business plan: è fresca fresca l’alleanza tra Murdoch e Apple per ridare vigore ai bilanci della disastrata News Corp, strozzata dalla crisi e dalla “concorrenza sleale e parassitaria” di Google News (ipse dixit la vecchia gallinaccia australiana) che dalla crisi non è stata neanche sfiorata. Ma se l’Italia segna la sua imbarazzante arretratezza agli occhi del mondo inseguendo l’atomo, quando nel palinsesto in tutto il pianeta va in onda 24 ore su 24 “Fukushima mon amour“, non si capisce perché guardando lo schermo da un’angolatura differente dovrebbero emergere elementi di novità.

Ed in effetti questa sconsolante sentenza tenta di affermare un principio giuridico unico al mondo, tratteggiando una linea di continuità con quella di Google contro Vividown del febbraio dell’anno scorso. Si trattava, allora come oggi, di una sentenza di diritto privato. Fatto che però non impedì all’ambasciatore statunitense di esternare tutte le rimostranze di Washington sulla questione (caso più unico che raro dal punto di vista delle relazioni internazionali). Una divergenza di punti di vista che nei cables poi rilasciati da Wikileaks assumevano toni assai meno diplomatici, espressione di una preoccupazione diffusa da diverso tempo tra gli addetti del settore.

Ovvero che in Italia c’è un tentativo di uccidere la rete e ritagliare un’infosfera a misura di Mediaset. O così oppure si perde il controllo della sfera mediatica italiana. E dalle parti di Palazzo Grazioli l’idea non piace proprio a nessuno.

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