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Occupy di classe

Tra le tende degli studenti di Harvard indignati contro la loro prestigiosa università e la finanza globale. Alle critiche rispondono: «La nostra vicinanza al potere è un motivo in più contestare»

Ad Harvard Square non si respira aria di rivoluzione. C’è la fila al gigantesco Starbucks a due piani che ha aperto qualche mese fa. Ci sono gruppetti di giovani alternativi che qui la gente chiama pit rats, «topi della buca», perché si danno appuntamento in una zona sotto elevata dietro alla fermata della metro. Ci sono i senzacasa avvolti nei cartoni davanti alla filiale della Bank of America. Invisibili ai passanti, al di là dei cancelli, ci sono anche le tende degli indignati di Harvard. 

«Vogliamo un’università per il 99%», scrivono sul loro manifesto. Per ora però nell’ Harvard Yard, il cuore del campus dove sono accampati da un paio di settimane, si entra solo col tesserino dell’università, visto che l’amministrazione ha chiuso i battenti agli esterni all’inizio della protesta, adducendo ragioni di sicurezza. «In diversi accampamenti del movimento Occupy ci sono stati degli episodi di violenza, tra cui sparatorie e aggressioni a sfondo sessuale», ha scritto la presidentessa Drew Faust in una email inviata questa settimana a studenti e staff. E infatti a presidiare le entrate ci sono poliziotti e guardie private: fuori i turisti dei gruppi organizzati e gli studenti della scuola serale; fuori anche Richard Wolff, economista marxista dell’Università del Massachusetts, e l’attivista di piazza Tahrir Ahmed Maher invitati dagli studenti la settimana scorsa a parlare rispettivamente di crisi del capitalismo e della primavera araba. «Di che cosa avete paura?», chiedono gli occupanti, che hanno lanciato una petizione per la riapertura dello yard che ha raccolto 110 adesioni nel corpo docente. 

Tutto è iniziato tre settimane fa. Una settantina di studenti del primo anno hanno abbandonato per protesta la lezione di economia di Greg Mankiw, ex consigliere di George W. Bush e ora di Mitt Romney, ex governatore del Massachusetts e candidato alle primarie, con l’accusa che il suo metodo di insegnamento è fazioso. «Non ha senso presentare le teorie economiche di Adam Smith come più importanti di quelle, per esempio, di Keynes», hanno scritto i contestatori in una lettera aperta indirizzata al professore. Qualche giorno dopo c’è stata un’altra manifestazione e sono arrivate le tende – una ventina, ordinatissime e quasi tutte uguali – sul prato davanti alla statua di John Harvard, il pastore puritano che nel Seicento lasciò una sostanziosa eredità all’università. Durante le ore più concitate dell’occupazione l’università aveva deciso di chiudere i cancelli a tutti, studenti inclusi, per poi desistere qualche ora dopo e limitare il divieto ai non affiliati ad Harvard. Da allora la vita della minuscola tendopoli scorre tranquilla – e nell’indifferenza dei più – tra assemblee generali, incontri e manifestazioni.

Niente biblioteca da campo, mensa alla bell’e meglio e generatore a pedali come nella vicina Occupy Boston. Gli occupanti si dicono solidali con il 99 per cento ma, leggendo bene il loro programma, sembrano avercela soprattutto con Harvard: «È un’ingiustizia che, adottando criteri di efficienza aziendalistici, si serva di lavoro esternalizzato; che investa in private equity come la catena alberghiera HEI, che dà impiego a lavoratori migranti non sindacalizzati; che non ci sia trasparenza negli investimenti». Per William Whitman, studente del secondo anno e membro del gruppo, il loro tratto distintivo sta proprio nella doppia dimensione della protesta: micro e macro. Da un lato c’è la sfida ideologica alla diseguaglianze e all’ingiustizie di tutta l’America, in linea col resto degli indignati; dall’altro quella contro Harvard per ottenere specifiche concessioni per studenti e lavoratori. E questo ha delle ripercussioni anche a livello strategico. «Occupy Harvard ha reso più forte il movimento Occupy», dice Whitman. «Gli ha dato un’incredibile visibilità sui media e a livello nazionale, grazie al potere e alla fama di Harvard».

Non è la prima volta che gli studenti occupano per cambiare Harvard – e il mondo. Negli anni sessanta avevano preso d’assalto la storica University Hall per protestare contro la guerra del Vietnam e le borse di studio finanziate dall’esercito in cambio dell’arruolamento di chi ne beneficiava. Trent’anni dopo era stata la volta dell’ufficio della presidenza, teatro di un sit-in di tre settimane che aveva l’obiettivo – poi raggiunto – di ottenere il salario di sussistenza per tutti lavoratori dell’università. Eppure in molti oggi non vedono di buon occhio la tendopoli issata in quella che è vista spesso come la culla dell’1 per cento. Per Cbs News è «l’accampamento più esclusivo del paese». La giovane columnist Alexandra Petri, che con gli occupanti ha in comune il pedigree di Harvard, l’ha demolita dalle pagine del Washington Post: «Tornate a lezione». Anche tra gli studenti non mancano i critici. C’è chi accusa Occupy Harvard di non avere una strategia di comunicazione efficace, chi di concentrarsi troppo sui problemi del campus. Circola anche una petizione – «Harvard libera» – di una matricola che vuole sfrattarli dallo yard per ripristinare la libertà di movimento, così da non dover mostrare il tesserino ai cancelli. 

Il bilancio delle prima due settimane di protesta, poi, non è esattamente entusiasmante. Anche se rivendicano come vittoria la firma del nuovo contratto del personale delle pulizie, siglato poco dopo l’inizio dell’occupazione dal sindacato Seiu, finora l’unica operazione di successo che gli indignati di Harvard hanno mandato in porto è stata una brevissima contestazione contro il repubblicano Newt Gingrich, di passaggio nel campus la settimana scorsa per parlare della sua candidatura alle primarie repubblicane. Ma loro non ci stanno a tornare indietro. Lucy O’Leary ha risposto ai dubbi dei colleghi sull’Harvard Crimson, il giornale dell’università: «Alcuni studenti dicono che siamo troppo privilegiati per poter dire di rappresentare il 99%. Al contrario, la nostra vicinanza al potere è una ragione in più per condannare l’ingiustizia e, anzi, ci obbliga a farlo. Anche Franklin D. Roosevelt, ex studente di Harvard, fu accusato dai suoi detrattori di essere un traditore di clas«se perché, durante il New Deal, appoggiò programmi di welfare e provvedimenti antitrust».

Da Il Manifesto

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