Perché le università britanniche sono bloccate?
Universities UK (UUK), l’organo direttivo a cui spetta la gestione delle accademie del Regno Unito, lo scorso anno ha prospettato un ingente disavanzo finanziario del fondo per l’erogazione delle pensioni al personale accademico, in ragione del quale ha ritenuto opportuno proporre un piano volto a eliminare il regime pensionistico a prestazioni definite. L’intenzione è di annientare il sistema che garantisce una erogazione pensionistica legata all’ammontare dei contributi versati in favore di un sistema incerto legato all’andamento del mercato azionario, che diminuirebbe del 40% l’ammontare delle pensioni del personale accademico strutturato.
La proposta, ratificata il 23 gennaio dal Joint Negotiating Commitee (JNC), il comitato che deve formalmente procedere alle modifiche del fondo pensionistico, ha generato la reazione di chi dovrebbe subire il taglio delle pensioni. In 61 università del Regno Unito dal 22 febbraio è infatti in corso lo sciopero indetto dall’UCU (University and College Union) che si svolgerà nell’arco di un mese per una durata complessiva di 14 giorni e che bloccherà le attività didattiche per 1 milione di studenti. Lo sciopero, come previsto dalla stringente legislazione tatcheriana, è stato preceduto da una votazione che ha registrato l’affluenza del 58% degli aventi diritto e il voto favorevole allo sciopero del 88%.
L’intenzione del sindacato, che contesta non solo l’unilateralità della decisione ma anche le stime finanziarie sulle quali essa si fonda, è l’apertura di una trattativa di negoziazione sulla modifica pensionistica. Il personale accademico è determinato a lottare per salvaguardare la garanzia pensionistica a oltranza, investendo così gli appelli di esame previsti per il mese di luglio.
L’UUK ha chiesto un incontro con il sindacato ma non è stata raggiunta nessuna mediazione e lo sciopero prosegue.
Lo sciopero sta ampliando i propri orizzonti valicando il perimetro della rivendicazione corporativa: diverse soggettività stanno mettendo in discussione la gestione complessiva delle accademie britanniche. In molti campus, come a Bristol, il personale accademico precario e gli studenti condividono la lotta del personale strutturato e aumentano la posta in gioco. Negli ultimi anni nel settore accademico britannico c’è stata una massiccia precarizzazione della docenza; della didattica si occupano sempre più insegnanti pagati ad ore che senza diritto a percepire alcuna pensione.
D’altra parte, gli studenti che condividono le proteste del personale riportano l’attenzione sull’esorbitante aumento delle tasse universitarie, approvato dal governo Cameron con il benestare dei laburisti, che ormai da qualche anno ha costretto la popolazione studentesca a indebitarsi per intraprendere e portare a termine il percorso universitario. Più di 100.000 studenti in 42 università hanno firmato delle petizioni con le quali sostengono ampiamente la posizione dei docenti e chiedono alle università il rimborso delle tasse per le ore di insegnamento perse.
Il taglio alle pensioni del personale accademico non è un caso isolato. Molti amministratori fiduciari e datori di lavoro stanno prendendo le stesse decisioni in tutti i regimi a ‘prestazioni definite’ del Regno Unito. L’argomento tradizionale per erodere i diritti dei lavoratori è il disavanzo finanziario generato dall’aumento dell’età media, vale a dire: siccome campate troppo, non è possibile garantire per tutto il pensionamento un reddito legato ai contributi versati o all’ultima busta paga. È sulla base di questo argomento che è stata aumentata l’età pensionabile ed è stato diminuito l’ammontare delle pensioni, fino a legarlo all’andamento del mercato azionario.
Tuttavia, l’aumento delle aspettative di vita non sembra essere un dato più così vero, o almeno non per tutti in egual modo. Ci sono già oggi intere aree in cui la popolazione che è colpita dalla precarizzazione del lavoro e dalla privatizzazione della sanità presenta tassi esorbitanti di mortalità. Il fenomeno è lampante in alcune zone del Regno Unito, come in Scozia e in particolare nella città di Glasgow (si tratta del fenomeno noto come ‘Glasgow effect’ o ‘Scottish effect’).
All’interno dell’area di Greater Glasgow, ad esempio, gli uomini che vivono a Bridgeton e Dennistoun hanno una speranza di vita inferiore di quindici anni rispetto a quelli che abitano nei più ricchi quartieri di Anniesland e Bearsden, a poco più di 5 miglia di distanza. Nel 2012 il National Records of Scotland ha pubblicato dei dati secondo i quali gli uomini che abitano a Dennistoun hanno solo il 53% di probabilità di raggiungere il 65° compleanno.
Si spera che la mobilitazione universitaria possa investire questi temi e dare luogo a una stagione di protesta in grado di mettere in discussione non solo il sistema accademico britannico, ma la politica neoliberale nel suo complesso.
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