«I nostri diciassette giorni in cima alla gru»
Jimi, Arun, Rachid e Sajat: quattro uomini, ancor prima di essere egiziani, pachistani, marocchini; ancor prima di essere i quattro che sono stati su una gru per 17 giorni. Quattro cuori pensanti e non quattro eroi. Giovani uomini semplici, il cui primo pensiero è andato agli amici espulsi.
«Sono addolorato per i nostri fratelli rimpatriati – dichiara Arun agli amici che lo accolgono con un lungo e commosso applauso mentre piove -. Noi non abbiamo fatto nulla, siamo scesi dalla gru con garanzie solo per noi, ma non abbiamo fatto nulla per i nostri compagni sotto la gru».
SI AGGIUNGE JIMI che pensa a Mohammed, arrestato lunedì a Milano e che rischia di essere espulso. «A me non mi frega del permesso. Abbiamo iniziato la lotta insieme e insieme dobbiamo vincerla».
Assieme hanno iniziato una lotta ma anche relazioni forti. Prima del 28 settembre non si conoscevano. L’amicizia è nata in via Lupi di Toscana, e si è rinsaldata nei giorni sulla gru.
«Durante le lunghe ore di pioggia, stretti nella minuscola cabina, ci raccontavamo le nostre storie – ricorda Arun -, storie che ho anche scritto in un diario; ora è in questura, ma spero di riaverlo presto». Un diario scritto in italiano, dato che «in questi giorni ho perfezionato il mio italiano, che avevo iniziato a studiare in un corso specifico». Prima di lunedì 8 novembre, cioè prima dello sgombero del presidio sotto la gru, ai ragazzi venivano inviati i giornali, assieme ai beni di prima necessità. «Leggerli mi è servito per migliorare l’italiano, oltre che per passare il tempo».
«In realtà quei giorni sono volati – riflette Jimi -, molti mi chiedono se mi annoiavo, cosa facevo, ma a ripensarci ora mi accorgo che sono passati davvero velocemente».
Jimi e Arun parlano anche a nome di Rachid, che padroneggia meno l’italiano, e di Sajat, che al momento dell’incontro con Bresciaoggi è impegnato nei procedimenti giudiziari. Non dimenticano Papa e Singh, che sono scesi prima di loro, anche se, ammette Jimi, «con loro non c’era intimità, non siamo davvero amici come lo siamo tra noi».
BEN 17 GIORNI di condivisione della paura, anche se «non ho mai temuto la morte – dice Jimi – perché tanto avevo già perso tutto». «Ho lasciato la paura sotto, prima di salire – aggiunge Arun -, poi non l’ho più avuta, perché avevo la forza che viene dalla consapevolezza che lottavo per i diritti, perché non sono né un ladro, né uno spacciatore. Voglio solo essere in regola».
Nella gestione del quotidiano facevano «i turni per tutto, perché non c’era spazio – racconta Jimi -, turni per dormire, soprattutto. Quando arrivava il cibo, nei giorni in cui c’era ancora il presidio sotto, giocavamo come bambini dicendo: quello è mio, quello è mio, cercando di accaparrarci i piatti preferiti!». Non nascondono che ci sono stati momenti duri e tensione psicologica, soprattutto «quando veniva la gente a cercare di convincere i nostri compagni a scendere – spiega Arun -, ma la solidarietà ci ha dato la forza. Da quando siamo stati isolati perché senza più cellulari, sentire Radio Onda d’Urto, soprattutto di notte, ci ha fatto sentire molto forti. Un grazie alle persone che hanno telefonato in radio e che ci hanno fatto arrivare affetto da tutta Italia. Mi sono commosso quando ho sentito le donne anziane o quando due signore hanno detto che ci consideravano come figli loro». Jimi ricorda Nerina come «la mia nonna italiana»; è un’ascoltatrice di 82 anni che ha chiamato una sera e che ha detto al conduttore «Di’ ai bimbi che gli voglio bene».
DOPO UN’ESPERIENZA del genere, i quattro ragazzi si sentono ancora di più «cittadini del mondo». E aggiungono: «Vogliamo restare in Italia, vivere in pace, secondo le regole, far nascere qui i nostri figli, ma non sarà facile: finché ci saranno leggi razziste, ci sentiremo sempre considerati come stranieri». Al loro Paese vorrebbero tornare solo per riabbracciare i familiari, che dell’esperienza sulla gru non sanno nulla: sia Jimi sia Arun hanno parlato al telefono con le loro madri i primi giorni dell’occupazione della gru, tacendo alcuni particolari. «Mia madre mi chiede sempre: quando torni – spiega Arun -? È vedova e malata. Io sono il primogenito, sono venuto in Italia per aiutare la mia famiglia, sono responsabile dei miei fratelli. Ma finché non ho un permesso non posso rivederli: a Rolfi e a Maroni chiedo di pensare a come vivrebbe la loro madre in una condizione come la mia, come quella di tantissimi immigrati. Chiedo di pensare all’umanità».
Intervista raccolta da Irene Panighetti per Brescia Oggi
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