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L’instabilità yemenita e gli attori coinvolti

Mediato un accordo anche dalle Nazioni Unite, che garantiva ad Ansarallah una forte presenza nel governo tecnocratico, gli Houthi si ritiravano (temporaneamente) da Sana’a.

Ma se l’insurrezione di settembre è stata di breve durata, quella di gennaio è sembrata un vero e proprio colpo di stato: la maggior parte delle ambasciate occidentali ha lasciato la capitale per motivi di sicurezza, mentre gli Houthi hanno immediatamente nominato un comitato rivoluzionario, guidato dal partito politico Ansarallah, con a capo Mohammed Ali Al Houthi come Presidente.

La scintilla della scontro è stata la riforma federale proposta dal governo tecnico di Sana’a, con l’avallo del presidente Hadi: questa prevedeva la creazione di sei macro-regioni volte alla decentralizzazione del potere ma, secondo gli Houthi, la regione a maggioranza sciita sarebbe stata penalizzata, poiché avrebbe perduto l’accesso diretto al Mar Rosso.

Gli Houthi hanno così ri-marciato sulla capitale, anche questa volta incontrando poca o nulla resistenza da parte dell’esercito regolare, e hanno rapito il segretario della commissione di riforma, Ahmed Awad bin Mubarak, e assediato il palazzo presidenziale e la residenza privata del presidente Mansur Hadi, mettendo quest’ultimo ai domiciliari. Nonostante la presa dei palazzi del potere, gli Houthi hanno fin da subito chiesto ai partiti di maggioranza, capitanati da Islah, di risolvere la crisi in Parlamento e si sono presentati come soggetto di ricomposizione dell’unità nazionale, abbandonando la retorica settaria per abbracciarne una nazionalista.

Data la risposta negativa dei partiti di maggioranza, sono intervenute le Nazioni Unite che, tramite il mediatore Jamal Benomar hanno riallacciato il dialogo, almeno ufficioso, tra gli Houthi e il presidente deposto Hadi. Secondo alcuni giornali arabi si era in procinto di un accordo di massima per insediare un consiglio transitorio volto a traghettare il paese fuori dalle tensioni: l’accordo avrebbe contemplato l’affidamento dell’iter legislativo alle due camere per uscire dall’impasse e per completare la transizione di potere (vale a dire per l’approvazione di una riforma federale equa e giusta per tutti gli attori politici). In questo contesto però si è inserita l’iniziativa del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG). Quest’organo, indispettito dall’iniziativa ONU e dalla mancanza di un’autorizzazione internazionale per l’intervento militare, si è organizzato autonomamente e ha accettato di ospitare a Riyadh, capitale dell’Arabia Saudita, dei negoziati di pace su pressione del deposto presidente Hadi.

L’Arabia Saudita, storica protettrice dello status quo in Yemen, si era subito dimostrata propensa ad accordare questa possibilità ad Hadi, mentre la delegazione Houthi (e l’Iran che li appoggia) faceva sapere che rifiutava ogni iniziativa di pace al di fuori dei confini del paese. Nello scenario yemenita infatti, attraversato da rivendicazioni settarie lungo l’asse nord-sud, si inseriscono attori regionali come Arabia Saudita e Iran, che utilizzano i propri procuratori in funzione egemonica per combattere la loro “guerra fredda”.

Da una parte i sauditi hanno interesse alla stabilità del proprio confine meridionale e, in funzione anti-iraniana e anti-sciita, utilizzano sia i partiti sunniti sia i capi tribali delle zone sud (tra cui si ritrovano storici ex combattenti jihadisti dell’Afghanistan). Dall’altra parte l’ascesa del movimento Houthi, con il colpo di stato del gennaio 2015, rappresenta uno dei principali strumenti di influenza di Teheran nelle questioni interne yemenite, sia in termini politici che di logistica militare. Detto che un accordo tra Hadi e gli Houthi sembrava fin dall’inizio molto difficile, almeno nel breve termine, la situazione sul campo si è andata via via polarizzandosi sempre di più. Da una parte dello schieramento gli autori del colpo di stato nel gennaio di quest’anno hanno stretto i ranghi, sostituendo tutte le guardie presidenziali con uomini di comprovata fiducia e trasferendo dotazioni belliche dalla capitale a Sadaa, la loro roccaforte nel nord. L’ultima in ordine di tempo è stata la presa di 3 Mig russi del 2009 e di missili a corto raggio che si trovavano all’aeroporto militare di Hodeida: gli Houthi hanno dichiarato che servono a combattere AQAP (Al Qaeda in the Arabian Peninsula) nel sud del paese, ma sembra che ciò sia stato determinato dal timore di un colpo di coda delle forze armate (è notizia del 20 marzo la scomparsa di rifornimenti in armi USA per 500 milioni di $….).

A fianco degli Houthi sembra oggi convergere strumentalmente il blocco che si rifà all’ex presidente Saleh, come testimoniato sia dalle rapide avanzate sulla costa occidentale (Hodeida) sia in alcune aree centro-meridionali a maggioranza sunnita (Mareb, Dhamar, Ibb). Gli Houthi, superiori a livello logistico e militare, e forti dell’appoggio iraniano, hanno sostituito tutti i vertici militari e delle polizie locali, sospettati di fedeltà ad Hadi, e hanno rapito il nipote dello stesso. Ma ciò non ha posto fine all’instabilità politica del paese.

Le altre parti politiche nazionali non hanno accettato la legittimità del colpo di stato, né lo hanno fatto le Nazioni Unite e la comunità internazionale. Accanto a ciò, la popolazione ha moltiplicato le proteste in diverse zone del paese, soprattutto nella capitale, dove è scesa in strada a chiedere la fine del colpo di stato e il ritorno del presidente Hadi. A queste proteste gli Houthi hanno reagito con la repressione e le intimidazioni, data la loro preponderante forza militare. Dall’altra parte della barricata c’è il presidente deposto Hadi e i suoi protettori del CCG.

La sua fuga dagli arresti domiciliari in cui si trovava ha rinvigorito l’opposizione al golpe Houthi. Partito alla volta di Aden, ha tenuto un discorso in cui prima si è detto ancora il presidente legittimo, poi ha ammonito l’esercito di non prendere ordini dai golpisti: attorno a lui si è radunato fin da subito un vasto fronte anti-Houthi. Hadi continuava a rimarcare l’illegalità dell’azione Houthi, trasferendo de facto la capitale ad Aden, forte dell’appoggio di undici governatori e dei Comitati di Sicurezza di Aden, Marib, Jawf e Shabwa, ma anche di Egitto, Qatar e Arabia Saudita, che si erano dette pronte a trasferire le loro ambasciate proprio nella nuova capitale.

La stessa Russia, storico alleato dell’Iran nella regione, dichiarava il suo appoggio al presidente Hadi per bocca del suo ambasciatore Vladimir Dedushkin, mentre la Cina, potenza storicamente incline allo status quo, continuava da una parte a sostenere le iniziative ONU e, dall’altra, a implementare la sua cooperazione con le forze di sicurezza yemenite. Il fronte anti-Houthi sembrava aver trovato terreno fertile anche nell’esercito: il generale di brigata Adel Qumairi, nella provincia di Al Jwaf, si rifiutava di prestare servizio sotto un governo incostituzionale, galvanizzando così la popolazione, e diventando figura pubblica di riferimento.

Intervento militare del CCG e conquiste di AQAP

All’interno di questa situazione è avvenuto l’intervento militare del CCG, che ha formato una coalizione sostenuta dalla Lega Araba, all’interno della quale le monarchie del Golfo sono affiancate da stati come il Marocco, il Sudan e l’Egitto (mentre il Pakistan si è sfilato, e la Turchia ha blandamente dato il suo appoggio). La coalizione a guida saudita, forte dell’appoggio logistico e militare americano (gli USA non si sono apertamente schierati vuoi per la fase delicata di negoziazione con l’Iran sul nucleare vuoi per la loro politica di “appaltare” la sicurezza agli alleati regionali), si è posta fin dall’inizio l’obiettivo di fare terra bruciata intorno agli Houthi, colpendo le sue facilities e i suoi depositi di armi, nonché i palazzi governativi e le roccaforti nel nord del paese.

I sauditi hanno deciso di intervenire proprio quando l’avanzata Houthi-Saleh prendeva Aden, costringendo Hadi a fuggire. Ma soprattutto, considerandosi (ed essendo riconosciuti dagli Stati Uniti) come i protettori dello status quo yemenita, sono intervenuti nel momento in cui i rapporti di forza tra Houthi e Hadi/Islah (Al Ahmar) non si bilanciavano più a vicenda. L’idea di uno Yemen realmente indipendente e sovrano, la paura che gli Houthi (e dietro di loro l’Iran) potessero costituire un avamposto “rivoluzionario” a due passi dai confini sauditi, hanno spinto Riyahd all’intervento.

Ma, al di là dell’interpretazione settaria di scontro Iran-Arabia Saudita/Sunna-Shia’a, la partita che si gioca in Yemen è interna. È uno scontro tra il gruppo di potere Houthi e quello degli Hashid (alleati strumentali delle tribù sunnite Al Ahmar), entrambi sciiti del ramo Zaydita: di settario c’è solamente la narrazione imperante dei media mainstream, dell’Arabia Saudita e dei suoi alleati, che, con lo scopo di mantenere il loro patronaggio sullo Yemen, hanno amplificato la “minaccia sciita-persiana”. Lo stesso rapporto Iran-Houthi è stato dipinto in maniera esagerata, sullo stile di quello tra Teheran-Hezbollah libanesi: ma, oltre alle differenze religiose (gli Houthi sono più vicini alla Sunna, mentre gli iraniani sono sciiti duodecimani), Houthi e Iran non hanno mai avuto questa convergenza di interessi. Almeno fino ad oggi. In tutto ciò si è inserita l’offensiva di AQAP, che sembra l’unica a guadagnarci dalla situazione di caos.

AQAP, sotto le spoglie di Ansar Al Sharia, in alcuni governatorati come Shabwa, Marib e Hadramout, ha mietuto vittime nell’esercito regolare e tra la popolazione sciita, con attentati e attacchi giornalieri. AQAP mira, attraverso una guerra d’attrito, a prendere possesso di alcune impianti petroliferi nell’est del paese, così da auto-finanziarsi e rinforzare il suo feudo all’interno dello Yemen. E sfrutta il malcontento delle tribù sunnite che, timorose della penetrazione Houthi, si stanno alleando con Ansar al Sharia. Il tutto in un’ottica di bilanciamento dello strapotere di ISIS, che possiede già un suo simil-stato tra Siria e Iraq. ISIS che, visto il caos yemenita, ha aperto una “filiale” proprio in questo territorio, presentandosi con un attentato kamikaze in una mosche sciita che ha visto la stessa condanna di Al Qaeda.

 

Un paese lacerato

Non è certo però un fatto attuale la crisi yemenita. Già prima della crisi odierna, e del crollo degli equilibri interni manifestatosi con il colpo di stato degli Houthi nel gennaio 2015, la situazione in Yemen era altamente instabile e settaria. A nord un’insurrezione era scoppiata nel 2004. La minoranza Houthi era insorta contro alcune postazioni governative e militari, demandando maggiore autonomia e trasparenza, nonché la fine delle discriminazioni socio-economiche subite dagli sciiti del ramo Zaydita e maggiore inclusione politica. L’insorgenza era stata domata anche grazie all’intervento dell’esercito reale saudita che, chiamando un presunto sconfinamento degli Houthi nel suo territorio, aveva bombardato le postazioni degli sciiti yemeniti. A sud, invece, richieste indipendentiste (movimento al-Hirak) e rivendicazioni clanico-tribali si accompagnavano alla fortissima presenza jihadista di Al Qaeda, una delle emanazioni di AQAP. Lo Yemen rimane infatti uno dei fronti più caldi della lotta al terrorismo degli Stati Uniti, che hanno fatto degli attacchi coi droni la loro politica imperante. Qui nel settembre 2011 un drone americano uccise Anwar al Awlaki, uno degli ispiratori degli attentatori del giornale Charlie Hebdo a Parigi.

In questa situazione di disintegrazione dello stato, nella primavera del 2011 il presidente Ali Abdallah Saleh ha rassegnato le sue dimissioni, a seguito di dimostrazioni di piazza sulla scia delle insorgenze medio-orientali note con il nome mainstream di Primavere Arabe. All’interno dell’esercito una parte era rimasta fedele a Saleh, ma il ritiro dell’appoggio all’ex presidente da parte della realtà tribale degli Hashid, la prima confederazione tribale yemenita, ha spostato i rapporti di forza a favore del generale Ali Mohsen al Ahmar.

Quest’ultimo, uomo forte dell’esercito e capo della 1^divisione corazzata (con contatti nella casa regnante saudita) si è unito col leader tribale degli Hashid, Sadiq bin Abdullah bin Hussein bin Nasser al Ahmar, fondando così il partito politico Islah, emanazione yemenita della Fratellanza Musulmana (poi diventato partito di maggioranza). Date queste circostanze, Saleh accetta un compromesso mediato dal Consiglio di Cooperazione del Golfo, secondo il quale il potere passa al suo vice, Abd Rabbo Mansur Hadi, in cambio della sua immunità. Ma la debole transizione istituzionale del presidente Hadi precipita in una crisi, dapprima nel luglio del 2014, e oggi nuovamente nel gennaio del 2015.

 

Conclusioni

La disintegrazione odierna di questo paese è dunque il risultato di una guerra civile tra un nord a maggioranza sciita e un sud sunnita mai totalmente integrati in uno stato funzionante, le cui élite hanno utilizzato la cosa pubblica per affari personali: esse hanno sfruttato l’irredentismo di parti della popolazione e si sono legati a poteri esterni per riprodurre il loro dominio, facendo della corruzione e del settarismo pratica comune.

Il malgoverno di queste élite ha così aumentato la povertà e l’esclusione di gran parte della popolazione dai processi economici e politici: lo Yemen è infatti considerato, secondo le statistiche dell’United Nations Development Program, uno dei paesi più poveri del mondo, collocandosi al 142esimo posto (su 182) per indice di sviluppo umano.

Le vicende odierne dello Yemen sembrano avvicinarlo allo scenario tipico di un failed-state, dove deboli processi di state-building e disintegrazione delle istituzioni sono accompagnate dalla mancanza di una forte autorità centrale e da contrapposizioni e violenze inter-settarie, data la presenza di organizzazioni armate fuori dalla giurisdizione dello stato nonché di forti interferenze straniere. Una specie di Siria nel cuore della Penisola Arabica. Nel mezzo di questa guerra civile la stabilizzazione passa, oltre che per la creazione di un governo inclusivo di unità nazionale, per un accordo tra Iran e Arabia Saudita.

Teheran vede infatti con favore l’allargamento della sua influenza in questo punto geografico strategico (nello stretto Bab al Mandab, tra Somalia e Yemen, passano 4 milioni di barili di petrolio al giorno), ma al tempo stesso deve fare i conti con l’overstretching della sua presenza in teatri di guerra come Siria, Iraq e Libano, al netto delle sanzioni che gravano sulla sua economia.

Per questo motivo l’Iran potrebbe moderare ulteriormente la sua strategia di appoggio agli Houthi e aprire a dei negoziati con il CCG, anche per incominciare quella strategia di “interazione costruttiva” con il regno saudita più volte invocata dal presidente Rohuani. L’altra grande potenza regionale invece, l’Arabia Saudita, potrebbe convenire che l’ascesa degli Houthi, considerati sì nell’orbita iraniana ma anche indipendenti da esso, possa funzionare da contrappeso al settarismo di Islah (bandito in Arabia Saudita in quanto emanazione dei Fratelli Musulmani e seguace di un islamismo filo-Qatar) e al pericolo di AQAP, che minaccia direttamente la legittimità dell’Islam dei Guardiani della Mecca.

Ma, nella scelta di muovere guerra, Riyadh ha voluto ribadire che lo Yemen è parte del complesso di sicurezza del Golfo Persico/Arabico e che quello che succede nel vicino paese non deve assolutamente ostacolare gli interessi sauditi (vedi bilanciamento nei rapporti di di forza tra gli attori yemeniti e mantenimento della sicurezza al confine). In conclusione, anche se di difficile comprensione, la convergenza di interesse tra Teheran e Riyadh potrebbe risolvere le tensioni etniche e religiose del piccolo stato yemenita: i canali di comunicazione tra i due giganti dell’area rimangano aperti nel caso dello Yemen (soprattutto dopo la nomina del “pragmatico” Mohammed Bin Nayef come vice-erede al trono dei Saud e del ministro degli esteri iraniano Zarif), nonostante l’intervento militare della coalizione araba a guida saudita.

 

1. Minoranza sciita del ramo zaydita che prende il nome dal chierico Hussein Badreddin al-Houthi

da Nuova Società

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