Londra sta chiamando. L’economia morale dei riot britannici
RIOT E OSTACOLI DI PENSIERO
Per comprendere quello che è accaduto in Inghilterra, eccezione insulare quanto modello globale, bisogna prima di tutto liberarsi di due ostacoli di pensiero. Il primo, che vive sotto la pelle di ogni cultura compiutamente politica, è quello che vuole i riot un fenomeno totalmente asociale e impolitico, semplice pretesto per esprimere aggressività, esibizionismo e appropriazione di merci secondo una logica consumista altrimenti quotidianamente negata. Il secondo è quello che piega invece quanto accade in Inghilterra secondo i propri desideri o le proprie paure: espressione geometrica e potente dell’escalation delle moltitudini, premonizione dell’incanalamento delle energie sociali verso una protesta forte e ordinata oppure, osservando dall’ottica del dominio, timore che stia arrivando la temuta resa dei conti dopo decenni di liberismo.
Si tratta di ostacoli di pensiero che, per natura, non fanno i conti con quello che il grande Pierre Clastres, osservatore sul campo della archeologia della violenza presso i Guaranì e i Guayakì, conosceva benissimo. Ovvero che c’è un fondo di incomprensibilità e di intraducibilità nei comportamenti conflittuali altrui. Gli ostacoli di pensiero politico qui individuati, proprio perché non riescondo a spiegarsi il fatto di trovarsi di qualcosa di diverso dai propri schemi e persino intraducibile, rispondono invece in modo sostanzialmente autoreferenziale. Spiegandosi quanto accade in Inghilterra, e non solo, secondo schemi abituali che si ripetono a vuoto. L’orgoglio delle culture politiche, che si vogliono consapevoli e mature rispetto ai riot degli inconsapevoli e impolitici, mostra così tutta la sua insufficiente vanità.
C’è poi un altro fraitendimento di fondo rispetto ai riot inglesi, sulla cui automatica ripetizione ciò che resta della cultura di sinistra italiana è imbattibile: quello che vuole questo genere di rivolte, “senza storia e senza tempo”, tipiche della società liquida, come risposta “istintiva” al “disagio”. Qui inconsistenza dello sguardo antropologico, cultura del declino impotente (il concetto di società liquida e inafferrabile serve proprio a legittimare l’inazione politica) e sguardo psicologico medicale sull’aggressività, come risposta al disagio, si fondono esaltandosi a vicenda in una rara inutilità politica e culturale.
L’ECONOMIA MORALE DELLE CLASSI POPOLARI IN INGHILTERRA
Partiamo quindi dalla prospettiva storica. I riot in Inghilterra sono antichi come la storia della Gran Bretagna. Fin qui niente di eccezionale, si potrebbe dire. L’eccezione insulare britannica sta però nel fatto che, specie dopo lo storico tornante della rivoluzione inglese del XVII secolo, sia la cultura popolare britannica, tradizionale e industriale, che persino alcuni filoni del pensiero giuridico inglese (si veda su questo Cristopher Hill) legano il riot non a un fenomeno di sfogo senza politica ma alla necessità tanto epica quanto funzionale di ristabilire eguaglianza nella Common Law. Non a caso, nelle rivolte per il pane del ‘700, non sono infatti rare le cronache inglesi che riportano di magistrati locali che, sotto la spinta della richiesta di giustizia della folla, invece di chiamare rinforzi, ripristinano per legge i prezzi dei beni di primissima necessità e di uso popolare. Le rivolte, maggioritarie, che non troveranno sponda nella magistratura locale, saranno invece quasi sempre guidate da rivendicazioni precise sui prezzi del pane, sulle modifiche dettagliate da apportare alla filiera produttiva e sulle misure per calmierare il mercato, condotte con furore quanto con senso pratico dell’obiettivo. Si tratta del fenomeno che Edward Thompson chiama economia morale delle classi popolari britanniche. Le rivolte popolari, lungo tutto il settecento e l’inizio dell’ottocento, infatti non scattano tanto a causa della fame ma per il fatto che esiste un tessuto di relazioni e di codici popolari che, in caso di penuria, non solo è in grado di far scattare la rivolta ma anche di imporsi sul senso comune nel tentativo di regolare moralmente, noi diremo in modo egualitario, il funzionamento dell’economia nei territori. L’economia morale delle classi popolari in Inghilterra racconta di grandi vittorie e drammatiche sconfitte ma si impone come strumento regolatore, per un secolo e mezzo, dell’applicazione dei diritti di base della popolazione britannica. E si tratta di uno strumento impolitico, non legato alla formazione di partiti e di sindacati, la cui memoria storica, simbolica starà all’interno del tessuto relazionale territoriale strategico che genererà le grandi lotte per la costituzione della classe operaia organizzata d’Inghilterra dell’ottocento.
Si tratta di pagine straordinarie di storia delle classi popolari che, per quanto dimenticate e occultate, tornano oggi utilissime. Proprio per capire la nuova generazione di riot inglesi e la sua nuova economia morale.
E per comprendere cosa significa la cultura del riot in Inghilterra, non stato di eccezione ma di condizione di ripristino della Common Law, basti ricordare che proprio alla fine del ‘700 chi visitava l’Inghilterra si stupiva della assoluta mancanza di deferenza verso i nobili da parte delle classi popolari. In virtù di questa autonomia delle classi popolari, come riportano diverse fonti storiografiche, la stessa rivoluzione francese fu considerata dalla allora sedizione repubblicana in Inghilterra come un fenomeno positivo ma condotto da schiavi che avevano fin troppo sopportato il giogo della monarchia. Loro, il popolo inglese, pur avendo il re altro non erano che uomini liberi perché facevano i riot ogni volta che era necessario, imponendo la legge popolare, senza dover sopportare il giogo secolare della monarchia come accaduto per i francesi.
Non a caso, durante la rivoluzione industriale, quando strumenti e tecnologie di una società disciplinare complessa si impongono, ben oltre il panottico di Bentham, per tentare di sottomettere la nascente classe operaia si tenterà proprio di criminalizzare la cultura del riot. Separandola da quella “ragionevole” di parte della classe operaia criminalizzando gli aspetti epici e narrativi della cultura popolare che esaltavano quella zona grigia che stava tra criminalità e rivolta. L’Inghilterra del disciplinamento capitalistico delle immense fabbriche e degli slum non aveva bisogno di Robin Hood. Eppure è proprio la compresenza di una cultura morale del riot, che affondava nell’Inghilterra, con la nascita di una cultura sindacale che si forgiò la classe operaia organizzata britannica. Il fenomeno complessivo, riot più sindacalizzazione, rappresentò anche il formidabile case study dell’esule Karl Marx che nel 1854, riportando per il New York Daily Tribune un commento sulla poderosa rivolta di Preston, scrisse che stava assistendo solo all’inizio del fenomeno storico della classe operaia organizzata a prescindere dall’esito della lotta in corso. L’economia morale si pone quindi in Inghilterra come precondizione storica, di relazione sui territori, di una organizzazione politica in grado di far valere diritti concreti universali e un nuovo assetto della società.
OUT OF CONTROL, L’ECONOMIA MORALE DEI RIOT INGLESI CONTEMPORANEI
Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 del secolo appena trascorso, la storiografia e la sociologia marxiste britanniche cercano di tendere in vario modo un filo rosso tra riot dell’ottocento inglese e quelli del novecento, soprattutto il secondo periodo. L’operazione non è priva di difficoltà teorica: legare i mods degli anni ’60 con i farmers del sud del Galles che insorsero a metà dell’800, ad esempio, non è operazione agilissima se non improponibile. Ma si riuscirà comunque a far comprendere che, nel passaggio di testimone dell’uso dei riot dalla cultura popolare alle controculture, tra ‘800 e ‘900 passa anche di testimone la concezione che le rivolte si leghino ad un’idea diffusa di economia morale. Le rivolte non scattano quindi tanto quando si manifesta il crudo bisogno, ricordiamoci quante generazioni senza nome hanno subito il tallone della storia, ma quando un diffuso tessuto relazionale e di codici culturali scatta nei confronti di ciò che viene considerato un grave sopruso. Le reazioni collettive non si animano secondo istinti dell’animale sociale o per necessità oggettive , come tanto cretinismo di sinistra ha sempre creduto, ma nel momento in cui esiste un grave fatto che incontra un tessuto relazionale territoriale che lo individua come tale ed è in grado di chiamare alla rivolta. Come è accaduto nel 1992 per Rodney King a Los Angeles, il cui processo agli agenti che lo pestarono fu giudicato una farsa, la morte di Mark Duggan a Tottenham ha scatenato un’economia morale della rivolta in grado di diffondere incidenti in molti quartieri di Londra e del nord dell’Inghilterra. Quando si sono diffusi, non solo a Londra ma nel mondo via social media, i particolari della morte di Duggan (neanche sua madre ha riconosciuto il cadavere a causa del trattamento della polizia di sua maestà) nessuna protesta pacifica ha tenuto e si sono alzati degli incendi e degli incidenti che, per ampiezza e significato (e per vittime successive), rimandano davvero ai riot del primo ottocento. E qui bisogna puntualizzare alcuni elementi: l’economia morale delle classi popolari inglesi era legata principalmente alla redistribuzione dei generi alimentari di prima necessità. Ancora la rivolta di Brixton del 1981, che ne generò altre nello stesso periodo, era più o meno inquadrabile in questo schema visto che si era ai primi anni del thatcherismo. Quella di Tottenham del 1985, quando un poliziotto fu ucciso con un colpo di accetta, era più legata alla questione dei rapporti di forza sul territorio. Le rivolte dell’agosto 2011 si dispongono secondo una più compiuta economia morale. Innanzitutto, e su questo se ne faccia una ragione chi giustifica rivolte solo se ordinate e legate ai mezzi di prima necessità (secondo un immaginario pauperismo tutto italiano), non sono legate al pane perché, a differenza del popolo inglese del ‘700 e dell’800, pochissimi che si rivoltano lavorano e nessuno di loro nella catena alimentare (come accadeva ai tempi dell’economia morale classica). L’economia morale, esercitata sui beni di prima necessità, descritta da Thompson era possibile perché intere popolazioni lavoravano alla catena alimentare o la conoscevano per trasmissione di sapere sociale. L’economia morale di oggi si esprime a partire dal conflitto tra controllo e libertà sul territorio (le vesti odierne di un classico della metropoli): quando avviene un fatto grave (come quello di Dunnan) e se c’è rivolta è perché nel frattempo si è accumulata una catena di fatti già ritenuti collettività gravi da chi scatena gli incidenti. E quindi nessuna mediazione della comunità è possibile e nemmeno auspicabile (come sanno gli Iman delle banlieue allontanati dalle strade durante la rivolta del 2005). Altro che reazioni irrazionali del branco: la rivolta è un ciclo di chiusura, e di ristabilimento di un ordine di giustizia ritenuto primario, a seguito di un fatto grave che rende insopportabili miriadi di torti microfisici subiti precedentemente sul territorio e nella vita quotidiana. Piaccia o non piaccia queste sono considerazioni più cliniche di quanto si creda: riguardano la dinamica dei gruppi sociali non un giudizio politico o valoriale nei loro confronti. E’ quindi comprensibile che il degrado dei quartieri meno abbienti, a seguito della durissima politica liberista e poliziesca di Cameron e Clegg, non abbia fatto che accellerare la percezione diffusa che la misura fosse colma. Un drammatico omicidio operato dalla polizia non ha fatto che scatenare elementi di inquietudine presenti da tempo.
Il fatto che alle rivolte seguano i saccheggi, come nei riot più classici, sta nella dinamica redistributiva tipica di questi fenomeni. Secondo uno schema di appropriazione legato però al simbolico del mondo contemporaneo. E’ vero che, secondo schemi classici delle rivolte, sono stati assaltati negozi di vestiti, alimentari e gioiellerie. Ma nella rivolta di Brixton dell’81, ad esempio, non sono stati assaltati megastore di computer o di telefonia cellulare. Non solo perché allora non esistevano ma anche perché, nel momento della rivolta in cui l’ordine liberista viene sospeso, si è creata l’occasione di fare con il mondo hardware ciò che è normale fare tutti i giorni in rete con il software. Ovvero appropriarsi gratuitamente delle merci. Il donwloading libero, tutto per tutti in ogni momento, è il sostituto valoriale della vecchia economia morale fondata sull’immaginario popolare.
L’economia morale dei riot inglesi contemporanei si esprime come elemento di regolazione di un ordine sociale dal basso che, a partire da gravi fatti sul territorio, definisce un’idea di giustizia primaria e immediata, praticata con la rivolta nei confronti della polizia, alla quale segue una pratica di riappropriazione di beni di prima necessità. Che oggi sono alimentari, di abbigliamento ma anche, e a volte soprattutto, tecnologici (che nella metropoli sono beni di prima necessità oltre ad avere un valore simbolico). Che tutto questo sia impolitico o invece prepolitico, come è già accaduto nella stessa Inghilterra, o che alle rivolte partecipino personaggi a volte discutibili è tema che fa parte di questioni successive. Se si si vuol capire perché accade quanto accade allora si deve comprendere che dietro una rivolta scatta un dispositivo, che mette in relazione una molteplicità di attori sociali, di economia morale. La politica, se ce la fa a capire il fenomeno, interviene poi nelle categorie e nelle modalità che è in grado di mettere in campo.
La propaganda governamentale inglese, come le tattiche di disciplinamento della nascente classe operaia dell’800, tende a criminalizzare e a minimizzare la portata di questo fenomeno. Se la rivolta scoppia a Totthenham gli altri focolai vengono definiti frutto di copycat (banali imitatori), secondo uno schema retorico usato nelle rivolte di trenta anni fa. Non si deve riconoscere alcuna legittimità e ordine relazionale, culturale, morale nelle rivolte, per quanto questo sia facilmente verificabile, ma solo denunciare gruppetti di aggressori, imitatori, profittatori, impasticcati e vandali. Per far questo bisogna anche far circolare, sulle piattaforme di comunicazione, l’idea che esistano dei cospiratori che manovrano la rivolta. Lo fece la libellistica dell’epoca per i Gordon Riot del 1780, quando 50.000 persone assediarono il parlamento, parlando di agenti esterni francesi. Lo fece la stampa degli anni ’80 del novecento per la rivolta di Brixton e lo si fa in rinnovate vesti oggi. Quando sui media si parla di Twitter e di Facebook, come per la rivolta delle Banlieue della piattaforma di blog Skyrock, come una sorta di direzione della cospirazione collettiva. In realtà i social media sono più pericolosi nella loro capacità di trattenere e immagazzinare tutta quella microfisica quotidiana dei piccoli torti dei diritti negati che, una volta giunta al limite della sopportazione, fa poi da detonatore alla rivolta. Le controculture diffuse rielaborano poi quanto accaduto in pagine web, blog, messaggi, video su youtube. Non c’è da stupirsi: come la guerra è un formidabile accelleratore della tecnologia e della scienza istituzionali, la rivolta accellera le pratiche di comunicazione e gli stili di rete e di relazione digitale. E’ una cultura out of control, viene a mente proprio un pezzo storico dell’elettronica inglese, che accellera l’evoluzione dei propri stili comunicativi tramite la rivolta. Del resto proprio l’Independent titolava “out of control” parlando dei riot che si diffondevano da Londra al resto d’Inghilterra. E forse out of control è proprio il codice per definire questo genere di economia morale delle rivolte britanniche contemporanee. L’economia morale del settecento esisteva per ristabilire un ordine sociale ritenuto naturale, quella dei riot contemporanei per uscire di controllo.
Le rivolte delle banlieue di Parigi, le proteste potenti di Atene, gli scontri di Roma del 14 dicembre, l’Inghilterra di oggi definiscono un panorama continenale dove il riot non è più l’eccezione ma la norma regolativa del simbolico collettivo della vita liberista europea contemporanea. Dopo un quarto di secolo di pace, armata, dell’Europa neoliberale. La rivolta di Londra rappresenta, in questo scenario, sia una eccezione che un modello globale. Eccezione perché discendente, seppur con significativi slittamenti di significato, da un modello storicamente efficace di riot che affonda le radici in periodi ben precedenti alla rivoluzione industriale. Modello perché, dal punto di vista dell’immaginario globale, Londra è ben più centrale di Atene o persino di Parigi. E se Londra sta chiamando, diffondendo grazie alla rete e alle fiamme che escono dagli schermi tv in LED la propria economia morale, un immaginario primario che è destinato a radicarsi, o a rafforzarsi, nel resto della società globale. Quanto questo immaginario sia impolitico o di precondizione alla politica lo sappiamo. Quanto una singola categoria, per le proprie istanze rivendicative, debba poggiare su un tessuto relazionale che genera economia morale è qualcosa che deve essere completamente riscoperto e adattato al nuovo. Ma è la politica che deve battere un colpo. Londra ha già chiamato mentre il liberismo, nelle convulsioni della propria crisi, cerca di sopravvivere serrando la sua morsa criminale sui territori.
“London calling to the faraway towns..”
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