Il risultato del referendum giocato sulla pelle dei lavoratori e delle lavoratrici di Mirafiori non è stato il plebiscito che Marchionne e soci si aspettavano. Hanno fatto leva sulla paura ma non hanno vinto. L’approvazione di misura è stata una sconfitta politica e un’umiliazione morale per quanti hanno sostenuto la “democraticità” di un ricatto imposto con la pistola alla tempia.
Credevano di vendicare lo smacco subito a Pomigliano e invece ne hanno raddoppiato l’effetto. Quel coraggioso 46 % di No ha mostrato un rifiuto diffuso a svendere diritti e dignità mentre tra i Sì una bella percentuale ha votato con la testa che scoppiava, mentre il cuore batteva altrove.
Gran parte della città – in primis gli studenti – hanno sostenuto e fatto propria questa battaglia. Era evidente che c’era in gioco qualcosa di più profondo e duraturo di una semplice ristrutturazione alla Fiat. Non si è trattato di mera solidarietà ma di schieramento e presa in carico di una storia che ci riguarda tutti e tutte.
Questa risposta a un attacco tanto esplicito – “o siete disposti a divenire schiavi o morirete di fame” – si ripresenta in piazza in questa giornata di lotta, ribadendo a gran voce la richiesta alla Cgil di uno sciopero generale di tutte le categorie.
Perché se è chiaro che Marchionne è solo la testa d’ariete di una più generale ridefinizione delle relazioni industriali, la loro guerra – lui e i suoi – la giocano fortino per fortino. Nostro compito è invece quello di generalizzare lo scontro, trasformandolo da battaglia di una categoria particolare in lotta sociale di ricomposizione.
Sei mesi fa eravamo in pochi a salutare con gioia il risultato di Pomigliano. Esperti di economia e padroni di ogni sorta ci assicuravano che sarebbe stato un caso isolato. Altrove, dicevano, gli operai sarebbero stati “più ragionevoli”.
Quando in poche decine di precari e studenti (e qualche lavoratore di Mirafiori) impedimmo di parlare al lacchè di Bonanni (il giorno dopo che insieme ai suoi compari, alla Uil e ad altri sindacati gialli firmarono l’accordo separato con Finmeccanica) rimanemmo stupiti dalla solidarietà che quel gesto raccolse. Anche se in pochi, interpretammo un senso maggioritario. A criticarci rimasero politici, giornalisti e qualche sindacalista.
Qualcosa stava cambiando nel paese. Di lì a poco scoppiò un movimento studentesco ampio e articolato che riusciva a bloccare per mesi le principali città del paese, condizionando non poco l’andamento dei dibattiti parlamentari, fino alla prova di piazza del 14 dicembre in cui la forza d’urto delle generazioni precarie è emersa con tutto il suo portato di rabbia, novità e consapevolezza.
A tre anni dallo scoppio della bolla finanziaria nessuno scorge prospettive reali di uscita dalla crisi. Ma i padroni non perdono tempo e cercando di trarne in breve tempo tutto il profitto possibile, imponendo condizioni di lavoro ancora più infami e togliendo ai lavoratori qualsiasi diritto.
Le risposte di Pomigliano e Mirafiori dicono che a tutto c’è un limite. Il 14 dicembre degli studenti e dei giovani precari mostra che ribellarsi non è solo giusto ma possibile!
Operai e studenti ?
In molte delle assemblee, dibattiti, presidi e manifestazioni che si sono succedute in tutti questi mesi, operai e studenti son tornati a parlarsi, i primi uscendo dalle fabbriche, i secondi ospitando i primi nelle sedi universitarie. Ne sono usciti momenti di confronto utili e fecondi per i mesi a venire. Molte di queste iniziative ci son sembrate però riprodurre schemi sorpassati e distinzioni ormai arbitrarie, dissolte dall’iniziativa aggressiva della contro-parte padronale e capitalista, interessata a formare nelle scuole e nelle università i futuri precari addomesticati di domani.
Molti discorsi pretendono ancora di distinguere “lavoratori” e “studenti” senza accorgersi che la maggioranza degli studenti sono già lavoratori. Altri parlano dell’università come se questa fosse ancora la sede di produzione della futura classe dirigente, dimenticando che la massificazione dell’accesso e la sua proletarizzazione sono un fatto ormai compiuto e irreversibile.
La maggioranza dei/lle giovani laureati/e finisce a lavorare nei call-center o s’incastra in un’infinita successione di stage, tirocini e lavori sottopagati. Chi “si sistema” lo fa in massima parte appoggiandosi a conoscenze familiari o amicali, reti che sempre più fungono anche da sostituti di un welfare in via di definitivo smantellamento e privatizzazione.
Gli aspetti più interessanti degli incontri e delle assemblee di quest’autunno-inverno hanno invece saputo evidenziare i tratti comuni di assoggettamento dell’odierno proletariato: lavoratori a tempo indeterminato, studenti, studenti-lavoratori, precari, studenti-lavoratori-precari… le combinazioni sono infinite perché infinita e variegata è l’odierna composizione di classe. Tutti pero sono caratterizzati da un’espropriazione senza precedenti di tempo, risorse, capacità. Per un lavoro pagato una miseria si deve dare una disponibilità di tempo indeterminata; servizi fino a ieri dati per scontati vengono smontati pezzo per pezzo; le capacità che la scuola dovrebbe formare vengono drasticamente impoverite, per essere meglio disposti a essere pagati meno e obbedire di più.
Se questi attacchi alla qualità della nostra vita c’insegnano qualcosa, è che di sicuro e garantito non c’è più niente. Che tutto è rimesso drasticamente rimesso in discussione e solo molto faticosamente potrà essere riconquistato. Questo è il segno della nostra odierna, comune, condizione di incertezza: una precarietà che non tarderà a trasformarsi in povertà.
Per questo il fronte comune su cui bisognerà saper organizzare una risposta è quello del reddito e della sua capacità d’acquisto di beni e servizi, non quello della “democrazia” o della “cultura”. La forza del sistema che ci domina è anche quello di saper stornare la nostra forza e i nostri punti alti di conflitto verso obiettivi secondari o arretrati. La nostra sta invece nell’individuare punti, momenti e modi in cui riusciamo a essere più incisivi, rischiando anche qualcosa ma per ottenere di più. Per questo è necessario sgombrare il campo dalle facili illusioni e dalle mistificazioni retoriche. Operai, precari e studenti devono oggi saper individuare con lucidità i discorsi e le tecnologie di comando che li assoggettano. Se il nemico degli operai si chiama “produttività”, quello degli studenti si chiama “merito”
Modelli di sviluppo: studiare differentemente, produrre altro
Accanto a operai, studenti e precari di vario tipo, scende oggi in piazza in appoggio dei metalmeccanici anche una nutrita delegazione di NoTav, movimento che non ha mai fatto mancare la sua presenza importante in queste difficili settimane di tentato isolamento dei lavoratori di Mirafiori. C’erano davanti ai cancelli a dicembre come alla fiaccolata cittadina del 12 gennaio.
Come molte altre lotte sorte in questi ulitmi anni a difesa del territorio – ma con quella marcia in più che gli ha permesso finora di vincere – il movimento NoTav ha posto da tempo una questione politica centrale per i nostri tempi: quella della sostenibilità dell’attuale modello di sviluppo. Ormai è sempre più chiaro che capitalismo equivale a produzione di morte e nocività. Da tempo padroni locali e capitalismo transnazionale ci raccontano una favola buia, con una sola alternativa: lavoro dannoso e senza diritti o ambientalismo senza sviluppo. Una morale dura, che postula per i poveri l’alternativa tra lavoro nocivo o miseria, perché l’ecologia sarebbe un lusso da ricchi.
La presenza dei NoTav in questa piazza è oggi importante perché scavalca e rifiuta questa finta contrapposizione. Perché è la dimostrazione reale che questa guerra tra poveri non è obbligata. Che può e deve esserci la ricerca di un alternativa reale tra lavoro che uccide o ambientalismo che non crea sviluppo.
Anche la Fiom, pur essendo un sindacato di lavoratori di un’industria pesante come è quella metalmeccanica, ha colto la posta in gioco. E’ significativo che nella disputa su Mirafiori, l’unico soggetto che abbia posto la questione della sostenibilità ecologica della produzione sia stata la Fiom (oltre ai sindacati di base che lo fanno da sempre). Mentre questa chiedeva alla Fiat quali progetti di motore ecologico e riconversione produttiva avesse in mente, Marchionne “il modernizzatore” presentava per il futuro produttivo di Mirafiori la costruzione di Suv (!?!), autovetture notoriamente poco inquinanti e alla portata di tutti.
La questione ambientale ed energetica è già la questione politica fondamentale. Elaborare una uscita condivisa e dignitosa dalla trappola che ci viene imposta è un compito imprescindibile per tutti/e quelli che sono oggi in questa piazza. Ma come il reddito o qualunque forma di nuovo welfare non ci verrà concessa dall’alto da un capitalismo riformato e illuminato – che anzi mostra ogni giorno il suo volto più predatore – così nessuna alternativa “verde” ci verrà in aiuto dagli uomini del “fare”. Fino a quando non avremo la forza di far pesare interessi e bisogni differenti da quelli prescritti dal mantra del capitalismo, la retorica del “saper proporre” rischia di essere una velleità ingenua. Costituente, continua a essere la contrapposizione. Il NO viene prima! Ce lo dice dimostra il movimento No Tav e il responso di Mirafiori, la rabbia degli studenti italiani e dei giovani tunisini.
Più urgentemente, si tratta di preparare le condizioni per un contro-uso dei saperi e delle capacità di lavoro e cooperazione. Come combiniamo oggi i saperi particolari e soggettivi con quelli più generali e taciti. Come decliniamo le capacità apprese da e per un sistema che ci è nemico in strumento di lotta contro di esso per la costruzione di alternativa. Il nodo fondamentale è trasformare il sapere generale, in tutte le sue articolazioni, in forza organizzata per la sottrazione di capacità a chi ci è nemico. Il movimento No Tav è riuscito a farlo attraverso una riappropriazione costante di sapere tecnico specifico e uso di parte della comunicazione. Gli studenti, per parte loro, hanno abbozzato qualche tentativo. Il compito strategico resta però quello di saper produrre e far circolare il sapere peculiare prodotto nelle e dalle lotte.
Per cui quando appoggiamo e lottiamo assieme ai lavoratori di Mirafiori, non difendiamo il lavoro che si fa alla Fiat; quando ci battiamo in Val Susa, non difendiamo l’esistente di una vallata già maciullata da decenni di industrializzazione e de-industrializzazione; quando occupiamo le università, non ci limitiamo a difendere l’ “istruzione pubblica” come se questa fosse uno strumento neutro e senza colpe. Questo lavoro, questa gestione del territorio e questa istruzione ci hanno portato all’intollerabilità della condizione presente. Quando iniziamo a dire No, difendiamo il poco che è rimasto e iniziamo a costruire l’altro di cui abbiamo bisogno.
Oltre il 28 (e i confini nazionali)
Il conflitto che negli ultimi mesi torna a riguadagnare legittimità e cittadinanza nel nostro paese non è un fatto isolato e nazionale. Le misure anti-crisi varate da tutti i paesi europei hanno incontrato ovunque resistenza e reazioni di piazza anche radicali. Dalla Grecia alla Spagna, dal Portogallo all’Irlanda, dalla Francia ai paesi dell’Est Europa, le popolazioni stanno dicendo che non intendono pagare la crisi per salvare l”Europa della Moneta”. Anche i movimenti studenteschi si sono passati il testimone di semestre in semestre, delineando un’opposizione continentale ai processi di standardizzazione e disciplinamento formativo messe in atto dal “processo di Bologna”.
Ma è quanto avviene in questi giorni sulle altre sponde del Mediterraneo che cattura la nostra attenzione: Tunisia, Algeria e ora anche la pentola a pressione egiziana stanno saltando. Le autocrazie di regimi e raiss tanto compiacenti con quest’Europa vengono messi a dura prova dalle insorgenze di popolazioni che non ne possono più di misurare la distanza tra la loro intelligenza, l’ampiezza dei propri bisogni e la miseria di un presente amministrato da una ridda di corrotti e papponi organizzati in clan e difesi da una sbirraglia ultra-equipaggiata. I giovani che incendiano Tunisi, Algeri e il Cairo non sono più un Terzo Mondo sotto-sviluppato da compatire. Hanno livelli di scolarizzazione, familiarità con le nuove tecnologie comunicative e desideri molto simili a quelli delle nostre giovani generazioni. Anche loro sanno che lo status quo non promette alcun futuro. La globalizzazione è anche questo. Oltretutto, sotto molti punti di vista, l’Italia sembra proprio presentare una situazione a metà tra questo Sud dell’Europa e il resto del continente. Approfittiamone, e impariamo dove c’è da imparare!
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