Argentina: luci ed ombre del petrolio di stato
Un saccheggio iniziato ai tempi delle grandi privatizzazioni del ’93-’99, periodo in cui l’azienda era stata scalata dall’iberica Repsol (a sua volta espressione di banche di banche ed enti istituzionali spagnoli, e partecipata dalla petrolifera messicana PEMEX) dopo essere stata artificialmente esposta ad altissimi livelli di indebitamento dalla propria dirigenza e svenduta in base a valutazioni truffaldine.
Dopo anni di sottoinvestimento da parte di Repsol – con una minima parte dei proventi del greggio reinvestiti in Argentina, e al prezzo di un notevole impatto ambientale e sociale – arriva quindi la mossa della presidenta. Sulla scia della revoca delle concessioni a Ypf da parte di diversi governi locali e dalla paradossale bilancia energetica del paese, costretto ad importare lo scorso anno gas e petrolio per 10 milioni di dollari per soddisfare i propri consumi interni; ma anche per godere di maggiore autonomia nel ripagamento del suo debito, rispetto cui diversi canali di finanziamento sono ancora preclusi dal crac del 2001.
I termini di espropriazione interessano il 51% del valore della Ypf, rappresentato in egual misura dalle azioni della Repsol – con il 51% del totale espropriato che va allo stato centrale, mentre il 49% ai governi delle regioni argentine produttrici di petrolio, prevalentemente facenti capo ai peronisti. E qui si pone il primo punto interrogativo. Il governo ha infatti designato per la gestione del capitale espropriato il Ministro della Pianificazione Julio De Vido: lo stesso che nel 1993 – in qualità di Ministro dell’Economia dello stato di Santa Cruz e assieme al defunto presidente Néstor Kirchner – supervisionò l’iniziale privatizzazione della Ypf. Una vicenda denunciata dal regista Pino Solanas (che ora, da eletto in una lista indipendente, esprime una cauta soddisfazione davanti agli ultimi sviluppi) nel suo documentario Oro Nero (dal minuto 1:18:00).
Il rimanente 49% del capitale di Ypf resta nelle mani di investitori privati, su cui svetta la quota del 25% del Gruppo Petersen, facente capo ad Enrique Eskenazi. Capo di una famiglia di imprenditori e banchieri che, rimanendo vicina sia ai vertici della Repsol che a Kirchner (e come lui, originaria dello stato di Santa Cruz), era riuscita ad impossessarsi di parte della Ypf senza sborsare un soldo – attingendo direttamente agli utili petroliferi di quest’ultima. Ma la sua posizione traballa, essendo il figlio Sebastian stato rimpiazzato alla guida della compagnia da De Vido.
Altri attori sembrano pronti a prenderne il posto, come l’italoargentino Carlos Bulgheroni – che avrebbe incontrato privatamente la presidenta ad inizio marzo per discutere il futuro dell’Ypf. Presidente della Pan American Energy, seconda compagnia petrolifera argentina in partnership con i cinesi della CNOOC (e che, al contrario della Ypf, ha tenuto alta negli anni l’attività estrattiva e di investimento interno) è anche l’ex proprietario dell’italiana Torno Global Contracting – da lui affidata al massone Giancarlo Elia Valori ed ai tempi appaltataria di numerose grandi opere in Europa e Nord Africa. Ed in ottimi rapporti con il rampollo Maximo Kirchner, i governatori locali, e le compagnie nordamericane, maggiormente dotate di mezzi per sfruttare i recentemente scoperti giacimenti di scisto e le miniere a cielo aperto.
Resta da determinare l’entità di un eventuale (e tutt’altro che scontato) indennizzo per la Repsol. Che, da una parte, sconterebbe la caduta in borsa delle azioni Ypf – evento che martedì ha sortito ripercussioni negative sulle quotazioni della petrolifera spagnola e sulla Borsa di Madrid nel suo complesso. Ma dall’altra è avversato dalle formazioni politiche – di base e non – alla sinistra della Kirchner. Le quali, oltre al rifiuto di pagare ulteriori pegni alle grandi compagnie, richiedono l’autogestione produttiva della Ypf e la socializzazione dei suoi profitti.
Infine, la tensione resta alta sul piano internazionale. Mentre per ora gli Stati Uniti tengono un basso profilo, la violenta reazione del governo spagnolo – toccato nei propri interessi nazionali – è stata sostenuta sia dal Regno Unito (avversario dell’Argentina per la recentemente riesplosa questione di sovranità sulle isole Falkland/Malvinas, e sulle risorse petrolifere di cui dispongono) che dall’UE, per bocca dei suoi massimi rappresentanti Barroso (commissione europea) ed Ashton (affari esteri). Istituzioni che lamentano “il danno provocato alla fiducia degli investitori esteri nel paese”. Ma simili moniti arrivano anche dal Messico, compartecipe di Repsol, e da quel Fondo Monetario Internazionale storico responsabile del tracollo argentino del 2001. Una sconfitta – con tutti i suoi chiaroscuri – duplicemente politico-economica ed ideologica; e che il neoliberismo non intende mandare giù tanto facilmente.
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