Iraq: voci da un paese distrutto
“Perché l’America è venuta a distruggere il nostro paese? Perché non ci lasciano in pace? È per il petrolio. Allora, che si prendano pure tutto il nostro petrolio, ma basta armi! Basta armi!”. Un signore di Baghdad sforza tutta la sua competenza nell’inglese per lanciare il messaggio accusatorio che, in Iraq, tutti rivolgono agli occidentali. Dicono “l’America” per gentilezza e per semplificazione, perché a nessuno sfugge, qui, chi ha fatto cosa; e l’Italia c’è stata e c’è dentro fino al collo. Dopo l’appoggio di Berlusconi (con l’avallo del Pd) alla terribile invasione di terra (e ai criminali bombardamenti) del 2003, dopo la partecipazione dell’Italia all’occupazione (do you remember Nassiriya?), e dopo il ruolo ambiguo nella situazione attuale, qualsiasi europeo o nordamericano che si trovi in questo paese deve rendere conto non tanto di quel che pensa, ma di chi è e da dove viene.
“Baghdad no good for you” ci avvisa un compagno siriano; e aggiunge: “Also no good for Kurdish”. Nessuno ci porterà a Baghdad, dice, se non vuole farci del male. Tredici anni di guerra, disperazione e sangue portati dall’occupazione e dalle sue conseguenze fanno di Baghdad un luogo dove gli occidentali non sono accettati in quanto tali, pena il rapimento o il linciaggio. Hassan si presenta, viene da Bassora, nel sud sciita controllato dal governo centrale, a pochi chilometri dal Kuweit. Appartiene alla minoranza sunnita nella città, per questo ha acquistato una casa a Erbil, per rigugiarvisi quando in città le milizie sciite (“gente ignorante”, dice) “creano problemi”. Ora è a Erbil per chiedere il visto per gli Stati Uniti: sua figlia è dottoranda all’Università di San Diego, e vuole andare a trovarla; degli altri due figli, uno è soldato e l’altro ingegnere. Lui ha scritto quattro di libri di racconti, e ritiene che Saddam Hussein fosse un buon presidente, “perché aveva aperto l’Iraq a tutto il mondo”. Poi però ha commesso degli errori, aggiunge: “La guerra all’Iran, l’opposizione all’Arabia Saudita, l’invasione del Kuweit”.
Ci invita a raggiungerlo a Bassora quando vogliamo: “A Bassora i miei occhi saranno aperti per voi”. Nur, anche lei araba, lavora a Erbil come receptionist. Alle 12.00 si nasconde interamente sotto il velo per seguire la preghiera che giunge ad alto volume dalla moschea di fronte al suo luogo di lavoro. Anche lei si è trasferita con la sorella Ofran da Baghdad tre mesi fa: “La situazione, a Baghdad, non è buona”. Tiene in braccio il suo bambino: è sciita, anche se lei è sunnita, perché è sunnita il padre. Le diciamo che la loro coppia appare inconsueta a chi sente da lontano le notizie che arrivano dalla sua città, dove sembra infuriare un conflitto terribile, da anni, proprio tra sunniti e sciiti. “No, non è tra sunniti e sciiti: è soltanto tra alcune persone, non tra tutti”. “Tutti i nostri problemi derivano dall’America – si intromette Mahmud, anche lui di passaggio a Erbil, anche lui di Baghdad – Prendi l’Isis: all’inizio pensavo fosse prodotto dalla religione, poi ho capito che è prodotto dall’America”.
Quando gli chiediamo da dove viene, si fa quasi aggressivo. “Sono stato in Finlandia. Non mi è piaciuta, e sai perché? Perché amo il mio paese. Io sono di Baghdad, sono di qui, sono iracheno. Tutte queste persone che vedi attorno a me sono iracheni, siamo tutti iracheni”. Si crea un certo imbarazzo. Uno dei ragazzi nella stanza è di Baghdad ed è arabo, ma gli altri due sono curdi e vengono dal Rojava. Nessuno risponde a Mohamed, che esce fuori a fumare una sigaretta, un po’ nervoso. Shiar, come il collega che gli passa il té, sta a Erbil da due anni. Sono rifugiati provenienti da Qamishlo, subito dopo il confine con la Siria. “Non è facile, la nostra vita. Siamo andati all’ufficio delle Nazioni Unite a Erbil, e abbiamo ottenuto lo status di rifugiati, per cui possiamo restare; ma il governo curdo iracheno non ci fornisce carta d’identità, forse ce la darebbe tra cinque o sei anni. Possiamo lavorare ma non studiare, né sposarci”.
Shiar dice di voler “cambiare mondo”, di non voler più stare “in questo mondo”. “Vorrei andare in Europa, ma l’unica via è la Turchia, poi via mare verso la Grecia. È pericoloso. Tanta gente sta morendo in mare”. Chiede informazioni su come avere il visto, ma rimane deluso quando apprende che, una volta scaduto quest’ultimo, se mai riuscisse ottenerlo (ed è praticamente impossibile), potrebbe facilmente ritrovarsi clandestino. L’idea di nascondersi tutta la vita dalla polizia, o di restare disoccupato perché nessuno lo assume, non lo alletta più di tanto. “Ora che la Siria è in guerra, tutti nel mondo dicono che non vogliono i siriani; ma quando in Siria c’era la pace, e si stava bene, dicevamo a tutti quelli che arrivavano, anche dall’Europa: welcome, welcome, you’re welcome”. Più che rabbia, il suo tono espime tristezza. La prima cosa evidente, qui, è quanto poco le persone abbiano interesse ad intavolare conversazioni politiche, a dire o sentire belle frasi come “i governi sbagliano” o “i popoli sono diversi dai governi”. Qui tutti sembrano troppo presi dall’urgenza di mettersi in salvo in un modo o nell’altro; e per iracheni o siriani, la reazione spontanea a termini come “politica” o “governo” sembra essere di pura paura.
Essere in un paese che il nostro stato ha contribuito a distruggere, oltre ad essere comprensibilmente pericoloso, è imbarazzante. Oggi di Iraq si parla soltanto in ragione dell’esistenza dell’Isis, perché l’Isis ha ucciso dei giornalisti statunitensi e ha massacrato centinaia di persone a Parigi. Tra il 2006 e il 2014, però, di Iraq non si è più parlato: cosa avvenisse in questo paese è rimasto un mistero, e non ha interessato l’opinione pubblica che intanto godeva dei proventi degli ottimi “accordi” petroliferi (se si può parlare d’accordo durante un’occupazione militare) che i paesi occupanti concludevano con le autorità posticce che avevano collocato nelle istituzioni locali (l’Eni italiana, in particolare… a Nassiriya). La resistenza araba all’occupazione condusse gli Stati Uniti, nel 2006, a concludere che il paese era ingovernabile. I think tank che avevano previsto, con la rimozione di Saddam, la stessa accoglienza all’American Way of Life che avevano apprezzato nell’est Europa nel 1989-91, avevano sbagliato.
Da allora, e soprattutto dopo l’arrivo di Obama alla presidenza (2009) è iniziata l’exit strategy americana da un pantano tanto più grave perché difficilmente comprensibile alla mentalità occidentale, laica o cristiana che fosse. Gli Stati Uniti, l’Inghilterra, l’Italia non hanno avuto, nel corso degli anni, in questo paese, che gli occhi del colonizzatore. Quando, nel caos della guerra all’occupazione, la guerriglia sciita di Moqtada al-Sadr (protagonista, nel 2004, dell’incredibile difesa della moschea di Najaf contro gli americani) produsse forme di autodifesa autonoma nelle città sciite, il leader al-Sistani si fece mediatore delle istanze sciite tanto con gli Stati Uniti quanto con l’Iran. La guerriglia sunnita basata a Falluja, Ramadi e Tikrit, oltre che a Baghdad, rivolse allora le proprie armi contro gli sciiti stessi, accusati di voler costruire un nuovo stato sotto l’ombrello statunitense. A capo della resistenza sunnita c’era il leader di al-Qaeda in Iraq Abu Musab al-Zarqawi, che aveva marginalizzato la guerriglia maggiormente laica legata al deposto governo di Saddam Hussein.
Gli Stati Uniti e l’Inghilterra tentarono di cavalcare lo scontro confessionale pensando che lo slogan “divide et impera” fosse sempre facile da applicare; ma la guerra tra resistenze diventò guerra civile con migliaia di morti, e la presenza statunitense continuò a patire le sue vitime e ad essere vista dalla popolazione come l’origine di tutte i mali, mentre i media occidentali distoglievano i riflettori dal paese. Nel 2011 gli Stati Uniti ritirarono le truppe, lasciando soltanto alcune migliaia di uomini per “addestramento” dei soldati iracheni e curdi e qualche squadra speciale. L’Italia lasciò 200 militari accanto all’areoporto di Erbil (forse perché potessero scappare più in fretta in caso di mala parata).
Il giorno stesso della partenza statunitense, il presidente sciita al-Maliki fece arrestare il presidente sunnita del parlamento. Fu l’inizio del saccheggio di stato dell’economia e della società di tutte le città a maggioranza sunnita, che nel frattempo avevano combattuto armi in pugno contro i militanti di al-Qaeda, riuscendo quasi ovunque a cacciarli. Tre anni dopo, quando le milizie dello stato islamico fecero ingresso in quelle stesse città, sterminando i soldati sciiti e crocifiggendo (oltre a chiunque infranga i dettami del corano) i funzionari corrotti del governo di Baghdad (dove, nel frattempo, quasi tutta la popolazione sunnita era stata espulsa in campi profughi della provincia di al-Anbar) molti le accolsero come un’armata di liberazione. Da allora il vessillo dell’Is sventola su Ramadi e Falluja, come su Mosul, dove il potere è amministrato dai consigli cittadini della Sharia. L’esercito ormai completamente sciita del governo centrale combatte a Ramadi, ottenendo un fragile controllo della città (nessuno può realmente sapere, al momento, a prezzo di quali soprusi sulla popolazione).
Questo paese sprofondato nell’odio, suddiviso in mille micro-stati di fatto indipendenti, spartito tra milizie, ideologie confessionali e spartizioni di denaro e potere, era un tempo un paese certo pieno di problemi, ma che la popolazione avrebbe probabilmente voluto e potuto, con il tempo, affrontare da sola. “Governato”, a tredici anni dall’invasione a stelle e strisce, dalla fazione irachena più vicina all’Iran (gli sciiti) è esempio lampante del carattere politico proprio del mondo contemporaneo, dove il controllo sociale è impossibile se non a prezzo della parcellizzazione gangsteristica della società. La condiscendenza sostanziale, benchè velata, degli Usa verso lo stato islamico in Iraq è l’ultima testimonianza del fallimento delle forme classiche del loro dominio, forse la prima delle forme angoscianti che essa ha adovuto e dovrà assumere. Daesh – come qui tutti lo chiamano – è l’ultimo argine e l’impresentabile elemento di dissuasione per l’influenza irachena di Teheran, e l’ennesimo regalo dei nostri governi a una popolazione che avrebbe potuto esserci amica.
Dai nostri corrispondenti a Erbil, Iraq
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