La scintilla che incendierà la prateria
It is our duty to fight for our freedom
It is our duty to win
We must love each other and support each other
We have nothing to lose but our chains
Assata Shakur
Ferguson, 9 agosto 2014; Baltimore, 19 aprile 2015. Tra l’omicidio di Micheal Brown e quello di Freddie Gray sono passati 262 giorni: la polizia americana ha ucciso altre 435 volte. Dati impressionanti che la dicono lunga sui metodi dei cops a stelle e strisce. Se a ciò si aggiunge che le vittime erano prevalentemente african-american, ma anche chichanos e latinos, si ottiene un quadro che sposta il piano interpretativo dall”evento accidentale’ – tema ricorrente nelle ricostruzioni fornite dalle istituzioni – alla ‘pratica abituale’. Negli Stati Uniti di Obama, cioè, è normale che due poliziotti bianchi fermino e pestino a morte un ragazzo nero di venticinque anni, lo carichino ormai esanime su un furgone e lo portino al distretto. Motivazione del fermo: nessuna. Una normalità che non riguarda solo Baltimore ma l’intero territorio americano, esplicitata da un ordine discorsivo che si fa potere nella pratica permanente di ricostruire relazioni di dominio – partendo dagli indicatori di ‘razza’, genere, classe, appartenenza religiosa, politica, ecc. dei malcapitati del caso – e, con esse, la piramide sociale che regge il sistema americano.
Una normalità che si inscrive in contesti di volta in volta differenti: il quartiere ghetto di Baltimore, Gilmor Homes, con povertà e disoccupazione altissime; la metropoli di Los Angeles, con politiche di gentrification, che espelle homeless e african-american per fare posto a nuovi lussuosi edifici commerciali e residenziali per bianchi hipster e businessmen; la piccola cittadina a maggioranza nera di Ferguson, nella provincia americana, che è governata da una minoranza bianca; San Francisco in cui alcuni quartieri, come quello storico di Mission ad alta concentrazione di latinos, è oggetto di investimenti di aziende e techies della vicina Silicon Valley (Google, E-bay, Intel, Apple, Yahoo, ecc.), con acquisto di immobili e conseguente sgombero, attraverso l’uso della polizia, di numerose famiglie messicane e peruviane. In sostanza, per evitare la trappola del preconcetto come causa del razzismo – in cui è implicitamente inscritto un nuovo orizzonte di senso (se il “nero” non è quel “nero”, allora chi è?) – risulta fondamentale leggere la geografia del potere in modo dinamico sia in termini cronologici sia per i casi in esame.
Osservando gli Stati Uniti da questa angolazione è possibile illuminare i confini interni alla società e leggerne le valenze in termini culturali. Si scoprirà, applicando uno sguardo su questi limites, che la logica spesso eccede i significanti. L’esempio più eclatante è la politica neoliberista di Obama che non solo garantisce ma anche supporta lo sviluppo di un modello sociale ed economico in cui la razzializzazione dei soggetti definisce il posizionamento degli individui all’interno del sistema lavorativo così come nella società. Le dichiarazioni del presidente americano sui fatti di Baltimore vanno lette in questa prospettiva: “Non ci sono scuse per le violenze. Quanto accaduto è controproducente” e poi conclude “alcune persone stanno usando la situazione per trarre vantaggi propri”. Si accodano a questa posizione il sindaco, Stephanie Rawlings-Blake, che arriva a definire gli insorti con il termine thugs, ossia criminali abituali: essi “distruggono ciò che generazioni precedenti hanno creato”. La stessa impone il coprifuoco, dando mandato alla polizia di sparare qualora ce ne fosse bisogno. Così anche il capo della polizia di Baltimore, Anthony Batts, che condanna le violenze; la madre di Gray che chiede giustizia e critica i riots; il reverendo della cittadina del Meryland che richiama alla pace. A parlare sono tutti african-american: non è un caso, ma la deliberata scelta, riprodotta da tutti i media main stream, di sedare la rivolta insistendo sul colore in funzione moralizzatrice. Difficile dare un’interpretazione: si è dinnanzi all’ennesima epidermizzazione alla Fanon, a uno sbiancamento quale effetto del ruolo ricoperto o quale conseguenza della visibilità mediatica? A prescindere dalla risposta tutti queste posizioni reiterano la logica espressa sopra. E non colpisce, a questo punto, che ad unirsi al coro vi sia anche la voce del governatore Larry Hoagan: bianco, repubblicano, che senza troppi giri di parole dichiara lo stato d’emergenza chiedendo l’intervento della National Guard.
Cambiando prospettiva e sezionando gli stessi confini si scoprirà, dietro al colore (ma anche agli altri marcatori citati sopra), un’architettura complessa finalizzata a generare sempre nuove discorsività, a rendere l’ordine narrativo inviolabile. Ciò avviene sia utilizzando costrutti culturali del passato in declinazioni costantemente aggiornate – evidente è il portato tanto dei colonialismi quanto dello schiavismo – sia con nuovi racconti. La finalità ultima è la governamentalità da raggiungere attraverso un’ampia gamma di forme di repressione: dalla segregazione territoriale alla violenza poliziesca, dal coprifuoco ai dispositivi di accesso o espulsione dal mercato del lavoro, fino alla costruzione di un immaginario pubblico che porta con sé un lessico specifico per ogni tipo di soggetto. Ad esempio, Freddie Gray era un giovane-nero in un quartiere conosciuto per le gang, per la criminalità, per la disoccupazione. Il suo “reato” è stato guardare male un agente. Tanto è bastato per innescare la reazione violenta della polizia.
Cosa rappresentano gli eventi Baltimore? Certo, vi è una continuità col passato. La cittadina del Maryland è uno dei luoghi della rivolta scoppiata dal 6 al 14 aprile 1968, come conseguenza dell’assassinio di Martin Luther King; è dove, il 19 aprile 1861, un’altra sollevazione infiammò le strade: quella tra favorevoli e contrari alla guerra civile, ai regimi schiavisti del Sud. Ma, molto più concretamente, Baltimore – e il suo passaggio nel lessico del movimento attuale da riot ad uprising – agisce rimettendo in discussione i confini sopra. La potenza degli scontri sta creando, cioè, uno spazio di agibilità politica altro rispetto all’asfittico sistema americano, in cui istanze diverse e una composizione eterogenea della piazza agiscono fuori dai meccanismi della rappresentanza. Va poi aggiunto che, per vari motivi, non ultima la lunga scia di sangue lasciata dalla polizia americana, le black live matters si stanno allacciando a lotte di altri soggetti, non necessariamente african-american.
Chicago, New York, Oakland, i focolai del grande incendio sono già accesi: questa non è Ferguson. Nelle piazze si stanno costituendo nuove soggettività che richiedono reddito, diritti, libertà, che esigono risposte, che si riappropriano – talvolta con l’assalto di negozi delle multinazionali – di ciò che è stato loro negato. Impossibile è esprimersi su come andrà a finire. Certo è che non finirà qui. Le opzioni sono due: o stare con chi amministra i confini, a prescindere dal colore e dalla bianchezza, o con la piazza. La barricata ha sempre due fronti, non solo negli Stati Uniti.
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