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Incidente di Fukushima: lacune progettuali e di controllo

Passato il sensazionalismo dell’incidente a Fukushima (ma non l’emergenza), l’attenzione dei grandi media si sposta sulle sue conseguenze, sperando di archiviare il secondo peggiore incidente della storia nucleare con uno sbrigativo “tutto sommato poteva andare peggio”. E’ una cosa assolutamente da evitare perché ci sono aspetti in questa vicenda che non possono essere messi da parte in attesa delle inchieste ufficiali.

Deficienze progettuali e di controllo. I reattori delle 6 unità di Fukushima sono ad acqua bollente (BWR) di progettazione General Electric (GE) con contenimento del Tipo Mark 1 e sono entrati in servizio tra il 1971 e il 1980. Già nella prima metà degli anni ’70 questo tipo di contenimento era stato ritenuto insufficiente a garantire la sicurezza in caso di perdita di refrigerazione al nocciolo e nel 1986 Harold Denton, capo della sicurezza della NRC (Agenzia per la sicurezza statunitense) aveva dichiarato che in tale circostanza c’era il 90% di probabilità che il sistema di contenimento Mark 1 si rompesse. Le pressioni dell’industria nucleare USA ed in particolare della GE, impedirono la messa in mora di questi reattori: il compromesso raggiunto con la NRC comportava l’introduzione di un sistema di ventilazione in atmosfera (venting) per far diminuire la pressione interna al contenitore primario, riconoscendo implicitamente l’inadeguatezza del sistema di contenimento, e consentendo –in caso di incidente- di scaricare gas radioattivi nell’ambiente anche se era previsto un sistema di filtraggio. Non è dato sapere al momento se i reattori di Fukushima siano stati equipaggiati con questo sistema (ma è certo che rilasci in atmosfera sono stati effettuati ripetutamente) anche perché la NISA (Agenzia per la sicurezza nucleare giapponese) è più un organismo consultivo che una autorità di controllo (le cui funzioni sono invece demandate al METI, Ministero del commercio e dell’industria) e quindi le potenti imprese elettronucleari come la Tepco, che tra il 2002 ed il 2007 ha omesso informazioni rilevanti sull’andamento di incidenti analoghi, hanno ampi margini di manovra. Altro aspetto grave messo in luce da questo incidente è che la collocazione delle piscine del combustibile irraggiato al di fuori del contenitore primario può portare al rilascio in atmosfera di radioattività proveniente dal danneggiamento del combustibile, come è successo al reattore n.4 il cui tetto è stato distrutto dallo scoppio di idrogeno formatosi per mancata refrigerazione. Questo aspetto potrebbe avere conseguenze sulla revisione dei criteri di progetto di tutti i reattori (BWR e PWR) visto che anche gli ultimissimi tipi hanno la piscina combustibile collocata al di fuori del contenitore.

Deficienze di esercizio degli impianti. E’ incredibile che l’alimentazione elettrica agli impianti sia stata ripristinata solo dopo 8 giorni dall’incidente. Per quanto il terremoto possa aver distrutto parte della rete elettrica e messo fuori servizio i diesel di emergenza, non si spiega come la Tepco non abbia provveduto a trasportare in loco gruppi di alimentazione mobili per rendere operative le sale controllo dei reattori, delle quali, comunque, sarebbe dovuto esistere un duplicato in zona più distante e protetta dell’impianto. Altrettanto incomprensibile è, non che sia venuta a mancare l’acqua di raffreddamento nelle piscine del combustibile irraggiato, ma che ciò non sia stato rilevato in tempo dalla Tepco.

Deficienze del sistema elettrico giapponese. Per ciò che riguarda il complesso degli impianti nucleari giapponesi coinvolti nel sisma, la situazione è più critica di quanto si dica perché se a Fukushima Daiichi tre reattori su sei sono andati distrutti e non saranno più utilizzabili, altri impianti hanno subito danneggiamenti meno gravi ma non per questo potranno essere rimessi in funzione prima di accurate verifiche. Tra questi ci sono: Fukushima Daini; Onagawa; Kashiwazaki-kariwa di proprietà della Tepco, e poi Higashidori e Tokai di proprietà della Tohoku, per un totale di poco più di 20.000Mw. Inoltre il sisma ha danneggiato anche numerose centrali termiche e qualche idrica: stime preliminari parlano di altri 8000-11.000 Mw che non potranno essere ricostruiti prima di qualche anno: in totale quindi il Giappone dovrà far fronte nell’immediato a un deficit di potenza di circa 30.000 Mw (a fronte di una potenza totale installata di 281.000 Mw) che si ridurrà nel corso dei prossimi anni in base ai programmi di ricostruzione e riavvio degli impianti. Un’emergenza seria indubbiamente, ma che poteva essere affrontata più facilmente se non fosse per l’impossibilità di alimentare le regioni del nord-est (quelle più colpite dal sisma) per l’esistenza di due reti elettriche con frequenze diverse: nel nord-est a 60 Hertz e nel sud-ovest a 50 Hertz che si interfacciano all’altezza della zona metropolitana di Tokio. Questa differenza impedisce che l’energia venga trasferita da una rete all’altra a meno di convertirne la frequenza con apposite macchine di cui attualmente ne esistono tre in Giappone con capacità totale di conversione di soli 1000Mw. Di qui la preoccupante previsione di razionamenti di lunga durata e conseguente forte perdita di produzione industriale che si sta ripercuotendo sul mercato mondiale dell’elettronica e della componentistica per auto. La forte dipendenza dal nucleare per la produzione di elettricità (40% circa) unita alla sconcertante mancanza di una rete elettrica unificata, rischiano di mettere in ginocchio il Giappone ben oltre i già gravi danni del terremoto.

I timori della Francia. La Francia è il paese che più ha da temere dal disastro nucleare giapponese. In primo luogo la sua dipendenza dal nucleare è quasi doppia di quella del Giappone ed anche se non è un paese così rischiosamente sismico, un evento naturale che abbia analoghe conseguenze a un terremoto non può essere escluso. Cosa accadrebbe alle sue centrali nucleari in caso di forte e prolungata siccità, visto che, a differenza del Giappone, la Francia le ha quasi tutte dislocate lungo i fiumi? A differenza degli impianti convenzionali, le centrali nucleari mal sopportano variazioni di carico ed ogni loro arresto non programmato può sempre portare a situazioni di emergenza. Inoltre per quanto sia stata tenuta sotto silenzio dalla IAEA, la presenza di combustibile al plutonio nei reattori 3 e 4 di Fukushima suscita forte preoccupazione dato che la Francia ne ha fatto un elemento chiave della sua politica nucleare. Infine, se l’industria nucleare nippo-americana risentirà dell’incidente di Fukushima, quella francese rischia ancora di più: Areva è in grosse difficoltà a causa dell’EPR, criticato in Europa, rifiutato nel Golfo Persico, in Canada e negli USA. Lo ha capito anche EDF che l’EPR da 1600Mw è un “bidone” (anche il Superfhenix lo era, ma chi se ne ricorda più?) e sta già lavorando ad un reattore di taglia più piccola per risollevare l’immagine del nucleare francese, non rendendosi conto che nei prossimi anni la Francia sarà chiamata a pagare costi pesantissimi proprio a causa della monocultura nucleare.

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pubblicato il in Crisi Climaticadi redazioneTag correlati:

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