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Tra negazionismo climatico e green economy. Intervento di Massimo De Angelis

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Riportiamo di seguito una serie di considerazioni di Massimo De Angelis, docente di “Political Economy and Social Change” all’East London University. Le sue argomentazioni sono relative all’ampio tema dell’ecologia politica, partendo dal rapporto tra natura, capitale e agente umano, passando per il dibattito politico attuale sui cambiamenti climatici tra negazionismi e prospettive di sussunzione “green”, arrivando a discutere di ipotesi generali sul tema della riappropriazione dell’organizzazione della riproduzione sociale da un punto di vista marxista. Il testo è la trascrizione dell’intervento di De Angelis al secondo appuntamento di “Until the Revolution – Laboratorio di critica ed ecologia politica” in svolgimento a Bologna. Appuntamento intitolato “Tra negazionismo cimatico e green economy”.

Parto provando a chiarire due cose. Si parla di Marx e della sua analisi della merce. Marx affrontava assieme a questo problema della merce, della mercificazione e del feticismo, anche quello dell’alienazione, che è legato a queste tematiche che affrontiamo oggi. Si diceva che legato allo sfruttamento capitalistico esiste anche l’alienazione dell’uomo, che si articola in diversi momenti. Articolazione dell’uomo come produttore, rispetto alla merce che produce. Questo lo si vede in chiunque lavori in una fabbrica sotto padrone. Stai producendo qualcosa su cui non hai alcun input autonomo su dove, come, quanto e perché.

C’è poi l’alienazione del produttore rispetto ai suoi co-produttori, perché in un ambito capitalistico hai dei forti limiti sull’autonomia di come produrre ciò che produci, di come ti articoli e cooperi con gli altri. L’alienazione del produttore, intendiamolo in senso lato, non solo in fabbrica, ma anche nel lavoro domestico, è anche rispetto alla natura, al rapporto con essa. Con natura intendiamo poi, la natura fuori dagli uomini, perché anche noi poi siamo natura. La natura non è fuori di noi, è anche dentro. Quando parliamo di natura stiamo parlando anche di noi stessi, rispetto all’ambiente nel quale esistiamo e nel quale ci mettiamo in rapporto in diverse forme. L’analisi della forma di questo rapporto uomo-natura fuori da noi, è una questione politica. Nel capitalismo, secondo Marx, questa alienazione si esprime appunto con la natura. Basti pensare alla lista drammatica che ogni anno emerge rispetto a incidenti sul lavoro, con morti, stress, si nota il male che ci fa un certo sistema economico e sociale.

Esiste poi l’ultima alienazione di cui parla Marx che è l’alienazione rispetto alla sua stessa specie. La specie umana si distingue dalle altre specie per la sua capacità di elaborare, di pensare e di autodeterminarsi attraverso una conoscenza che si sviluppa. Partiamo da questa alienazione perché questa è presente anche oggi in maniera drammatica. Tocca i grandi temi correnti del cambio climatico ma non solo, perché quando vediamo queste lotte esprimersi in maniera effervescente come a Londra con l’emersione di Extinction Rebellion ( che è stato un grandissimo momento di espressione di questa ansietà enorme, di questa paura) vediamo che si accumulano con altre ansietà. Fino all’altro ieri si parlava di precariato, di sicurezza materiale, di come tirare avanti, ora esiste una nuova ansietà, quella del cambiamento climatico, che non ha paragoni.

Insieme ad essa ci sono tante altre tematiche, quelle che studiosi come Steffen hanno definito in relazione alla parola Antropocene. Si parla di un tentativo di mettere insieme tutte le tematiche ambientali che non includono soltanto il cambio climatico ma anche la perdita di biodiversità, quasi al 60% dagli anni Cinquanta, con l’erosione delle coste per effetto della produzione di massa di beni come i normali gamberetti che devastano terreni e organizzazioni sociali come quelle degli agricoltori, mettendo a rischio anche le falde acquifere. Oppure l’emissione di metano dovuta alla produzione di massa per gli allevamenti di carne dovute a popolazioni cittadine crescenti affamate sempre di più e spinta dall’agro-business. Ci sono tralaltro molte altre di queste cose, con il lavoro dello stesso Steffen che attraverso decine e decine di grafici descrive come a partire dalla Rivoluzione Industriale si sia avuto un cambio di rotta delle emissioni di anidride, che via via è sempre schizzato verso l’alto.

Con l’accelerazione globale del capitalismo si ha una accelerazione anche di tutti gli altri indicatori negativi della condizione ecologica del mondo, anche oltre la questione delle emissioni. Siamo in una crisi ambientale enorme, che non è che distrugga la natura (per quello ci vuole molto). Distrugge piuttosto le condizioni di vita necessarie alla riproduzione umana, alla vita umana in senso armonico con la natura. Il capitalismo ha effettuato una sorta di dirottamento di un periodo, di un’epoca geologica che si chiama Olocene in cui tuttora ci troviamo in linea teorica, che è un’epoca che in teoria sarebbe dovuta durare migliaia e migliaia di anni, in cui le variazioni climatiche sono molto contenute, utili per una crescita stabile delle civiltà umane. Il capitalismo è riuscito a mettere fine a questa epoca, in cui tutti i valori che costruivano la visione dell’Olocene stanno sforando e continuano a sforare.

Non sembra che ci sia alcun limite a questa follia del capitalismo. Il pericolo è questo, ed è enorme. Si parlava del negazionismo, e della green economy. I negazionisti lo sono per questioni molto spesso anche evangeliche come negli Usa. Molti dei negazionisti però sanno benissimo qual è il problema, solo che ragionano nell’ottica di una mentalità da economisti. L’economia mainstream ha una enorme responsabilità su questi fenomeni e sulla loro comprensione. Una parola chiave all’interno di questo dibattito è la parola “sostenibilità”. Potremmo ragionare sulla vacuità di questa parola, applicata sia all’ambiente che al business. In quest’ultimo caso, si parla di rendere il business continuo, senza fine. Quella ambientale è invece capacità della natura di poter essere goduta allo stesso modo anche dalle generazioni seguenti. Questa idea viene da una grande intuizione delle popolazioni eschimesi per le quali ogni decisione da prendere all’interno della comunità non andava pensata sul corto periodo, ma considerando l’effetto di quella decisione sulle sette generazioni future. Ogni decisione era ponderata dalle comunità indigene come una decisione importante. Quelli che avrebbero dovuto pagare le conseguenze di certe decisioni andavano tenuti in considerazione.

Nell’attuale dibattito ci sono due modi di comprendere la parola sostenibilità. Ci sono scienziati, come quelli climatici, che leggono i processi ecologici e delineano un concetto forte di sostenibilità. Tu non puoi continuare a emettere gas serra oltre 380 parti per milione, perché sennò si sconvolge il clima. Semplice, chiaro, fondat sulla base che la biosfera è finita. Ogni frase dei governi che nega questo discorso è una grande menzogna. Ogni tendenza economista, neo-liberale o keynesiana, è basata su una crescita economica che non abbraccia il limite posto dagli scienziati. Non si può emettere più di tot, anzi bisogna andare all’indietro, decrescere in qualche modo, anche se questo è un dibattito ampio.

Esiste anche un altra idea di sostenibilità debole, come la chiamano loro. Per questa linea di pensiero esiste il capitale fisico (macchine, fabbricati, materie prime) e poi c’è anche il capitale naturale. Per questo filone, distruggere capitale naturale è possibile, basta poterlo rimpiazzare con capitale fisico. Per loro, è possibile sostituire al capitale naturale il capitale creato dai sistemi economici. Gli esempi sono tanti, ad esempio quello di mettere sostanze riflettenti intorno all’atmosfera per riflettere il sole, in modo da abbassare la temperatura e continuare a crescere e ad emettere senza sosta salvaguardando l’equilibrio.

Da questa visione qui bisogna interrogarsi anche sull’idea per la quale ci si ponga la domanda su che tipo di futuro immagini il capitalismo. Che tipo di esistenza propone? Una in cui tutti sono dipendenti dalle tecnologie su cui si guadagnano miliardi, ad esempio per fermare i raggi del sole come detto prima? Non so se avete mai visto “Total Recall” di Schwarzenegger, un film degli anni Ottanta in cui Schwarzenegger va su Marte, colonia umana, in cui il capitalista monopolizza l’aria come condizione di vita in cui può ricattare chiunque. Il capitale, cioè l’aria, è in mano a chi gestisce la colonia. Se c’è qualche gruppo che si ribella, basta togliere l’aria. Il problema è affrontato alla base della riproduzione. Questa è una delle opportunità dei negazionisti, una verso cui tendono.

Recentemente, Mike Pompeo, Segretario di Stato USA, ha detto in un discorso molto lucido che in effetti sì, forse c’è un problema climatico. Ma allo stesso tempo ha detto che con lo scioglimento dei ghiacci ci sono opportunità economiche enormi, sia per le rotte logistiche tra Asia e America, ma anche per l’esplorazione di pozzi petroliferi ad esempio. La loro idea è tutta da leggere dentro il continuare lo sviluppo così com’è, e anzi accelerarlo anche grazie a queste trasformazioni naturali. Tu pensi, non è che colpisce anche loro questo processo? Beh, ci sono stati molti servizi su come l’1% si voglia e si possa proteggere da queste catastrofi. Nel mercato delle proprietà i vari bunker anti cambiamento climatico stanno esplodendo per quanto riguarda il mercato. Ci sono ville attrezzate a mantenere la sicurezza di chi ci abita da qualsiasi evento, da guerre nucleari fino a devastazioni climatiche. Se c’è un problema da affrontare poi, lo farà la tecnologia, che a sua volta offrirà anche altre possibilità per fare profitti e crescere continuamente. Metteranno basi in giro per il sistema solare.

L’altra possibilità, quella green, è un pochettino più subdola. Si va dai rappresentanti alla Ocasio-Cortez, sedicente socialista Usa, del cosiddetto Green New Deal, fino a sezioni del Labour in Gran Bretagna vicini alla stessa Ocasio, fino ad economisti favorevoli alla Stiglitz. Va detto che questa proposta non cambia le carte in tavola più di tanto. Si parla di sviluppo e crescita verde, di conversione tecnologica. Crescita verde, è un po’ uno snodo da affrontare. Gli esperti di economia circolare, che si occupano della riciclabilità dei beni, dicono che il massimo che si può ottenere sta intorno al 30% delle materie prime inizialmente usate. Ed è una percentuale di prospettiva, quella attuale è ancora minore.

La crescita economica comunque, anche se verde, ha degli effetti ambientali, si parla di sottrazioni di materiali, di inquinamento e così via. C’è il problema della sostituzione dei combustibili fossili con pannelli solari e altre forme di rinnovabili. Pensate soltanto a quello che vuol, dire dal punto di vista materiale in termini di estrazione di metalli, di terre rare per fare pannelli e impianti eolici capaci di sostituire tutta l’energia che viene prodotta oggi. Un indirizzo verso la rinnovabile vorrebbe dire all’interno del capitalismo dover produrre almeno la stessa energia attuale, se non di più. Vorrebbe dire che il mondo sarebbe una miniera a cielo aperto per permettere questa transizione. Si porrebbe con ancora più forza il tema del land-grabbing contro cui si sono scagliati in diverse parti del mondo movimenti sociali, anche in vista di una transizione ecologica. Molte delle terre rubate dai vari governi alle comunità avevano all’interno minerali necessari alla transizione.

Questi sono solo alcuni aspetti, c’è poi la questione sociale, del tipo di rapporti sociali che si possono produrre. Io non credo che ci sia oltre questi due poli una alternativa. Quest’ultima, quella verde, del Green New Deal non si capisce chi ci guadagna e chi ci perde. Quanto è verde, e quanto è “rossa” in termini di vittorie sociali questo nuovo patto? Se aumentiamo lo sguardo su tutto il globo, vediamo che stiamo vivendo su un pianeta che anche altre sfide, a partire dalla questione della fame ad esempio, che è aumentata. Le condizioni del pianeta nella sua totalità sono terribili in termini di problemi creati dallo sviluppo capitalistico. Che fare dunque? E cosa vogliamo, oltre a ciò che possiamo fare? Qual è il nostro orizzonte?

Il primo orizzonte è rifiutare quello dei conservatori alla Trump e Bolsonaro, di quelli che spingono sull’agro-business, modello di agricoltura che ha un costo enorme sul pianeta. Se si pensa a ognuno dei settori responsabili di questi processi, van tutti cambiati. Ma molti utopie anche dei “vecchi comunisti” sull’organizzazione sociale si sgretolano di fronte a questo tipo di capitale. L’agro-business con trattori, fertilizzanti, grandi produzioni e così via è da eliminare. Come ripensiamo l’agricoltura? Da qui ci si deve passare. In una fase di capitalismo avanzato come il nostro ci si deve ancora interrogare sull’agricoltura. Questa impiega ormai una quota piccolissima di lavoratori in paesi come il nostro o l’Inghilterra. Non ci si pensa quasi mai quando si fa politica, ma è un settore chiave in cui un diverso modello agricolo è una delle chiavi per capire come costruire un nuovo mondo.

Io credo che questa problematica generale inquadra bene il problema dei “commons” che declino all’inglese. In Italia si parla molto di beni comuni. L’acqua, la terra, una lista infinita. Non c’è limite, è tutto bene comune ormai. Parte della letteratura si è ormai prodotta nel creare una grande confusione. Ad esempio bene comune non è bene di tutti. Che differenza c’è allora col bene pubblico? Sono diversi. Il bene pubblico è accessibile a tutti, ma è gestito dallo Stato, dal suo sistema gerarchico, con le sue priorità. Io invece credo, ispirandomi molto alle comunità indigene, che il bene comune sia un bene in cui una pluralità di soggetti reclama come tale, prendendosene cura. Il bene comune per esempio è la terra di Mondeggi, percorso collettivo in cui ci si è appropriati di circa 200 ettari di terra lasciati alla rovina per creare una comunità che attraverso il fare in comune ha cominciato a fare sistema.

I commons sono per me quel sistema, quei sistemi che nascono da una comunità, da una pluralità che reclama uno o più beni comuni e poi facendo in comune (commoning) procede. Qui si creano modi di vita e di produzione di valore alternativi a quelli del capitale. Il rapporto con la natura fuori di noi è li un rapporto simbiotico. C’è un rapporto di valore, che io chiamo agro-ecologico in cui la terra è un soggetto, non una risorsa da usare e basta. C’è poi un rapporto di mutuo aiuto, salta l’alienazione tra produttore e prodotto, svanisce, così come l’alienazione tra produttore e i miei co-produttori, dato che decidiamo insieme, non c’è un capo. Ci sono altri casi, altri esempi, come ad esempio quello di alcuni a Rosarno. Questo di Mondeggi è uno dei tanti esempi di sistema, di fare in comune che è una frontiera di lotta. C’è una lotta in corso da alcuni anni, con il Comune che vuole chiudere quell’esperienza per monetizzare, per specularci su. D’altra parte c’è chi porta avanti quell’esperienza che lotta per creare legittimità a valori e meccanismi sociali differenti. Dando fonti di vita a chi lavora e sperimentando metodi nuovi, agro-ecologici. Provando a cancellare l’alienazione marxiana e creando un plusvalore non basato sullo sfruttamento, ma redistribuito a tutti.

Ci sono situazioni di questo tipo da molte parti. Non c’è solo la questione della terra. Durante la crisi greca, dal 2008 in poi, sono nate come funghi delle cliniche autogestite, nate per necessità dati i tagli al servizio sanitario. Eppure si è scoperto che la fattibilità organizzativa di un modello alternativo esisteva. Pensiamo se fossero finanziati. Questi modelli ci indicano un orizzonte, politico. La questione politica centrale oggi secondo me in questa crisi ambientale ed economica è che va ripresa in mano la gestione delle condizioni materiali della riproduzione sociale in senso lato. I commons come modello organizzativo, orizzontali, consensuali, connessi tra loro su scala allargata, con l’obiettivo di riprendersi pezzo dopo pezzo, in diversi ambiti, la riproduzione sociale nel suo complesso. In Italia il numero di giovani che vogliono stare nell’agricoltura è aumentato, come in tutta Europa, anche in Gran Bretagna, perché tornare alla campagna permette più possibilità produttive, permette di creare dei modelli nuovi, anche per essere autonomi, per aumentare l’autonomia dal capitale. In questo caso vuol dire aumentare l’accesso alle condizioni di riproduzione sociale.

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